Franco Fayenz
da Roccella Jonica (Rc)
Archie Shepp ha 69 anni. L'ex alfiere della «musica fucile» degli anni Sessanta, che con la voce corrosiva del sax tenore sollecitava l'opposizione dei neri all'establishment, è in ottima forma. Il colloquio si svolge nella hall di un albergo all'ora dell'aperitivo serale, prima di una sua ottima performance a Roccella. Shepp sfoggia un impeccabile abito gessato e forse coglie qualche sguardo di sorpresa. Subito, infatti, dice di ricordare con piacere un vecchio libro italiano che recava in copertina una sua foto dov'era avvolto in un dashiki africano; portava occhiali scuri, uno zucchetto chiaro e il sassofono imbracciato come un'arma. Ha una memoria impressionante. «Arrivai per la prima volta in Italia nel 1967 per un festival che si teneva in una città chiamata Lecco, dico bene? Il concerto cominciò con il gruppo di Miles Davis, poi suonai io che scatenai con la mia musica applausi clamorosi e proteste violente. Fra gli spettatori scoppiarono litigi tremendi, fu una cosa bellissima».
Ha nostalgia di quei tempi, maestro?
«No. Adesso suono in modo diverso, più meditato, più tranquillo, se posso usare questo aggettivo. Ogni generazione, anzi vorrei dire ogni decennio ha le sue caratteristiche, il suo modo di intervenire sulla realtà. Ma nel profondo dell'animo io non mi sento cambiato».
Lo sa che allora, in Europa, molti preferivano la sua musica a quella di John Coltrane? C'è un suo brano del 1968, Damn If I Know, che è considerato un grande capolavoro, tipico del suo stile, ed è tuttora molto ascoltato anche dai giovani.
«Per me il disco è più importante del concerto e permette maggiori opportunità. Posso pensare meglio a ciò che faccio, posso ripetere un brano e correggere gli errori. Il concerto invece è effimero come i castelli di sabbia che i bambini costruiscono sulla riva del mare. Ritengo che Mama Too Tight e Attica Blues siano i miei dischi più rappresentativi del mio percorso musicale. Non a caso oggi ho un'etichetta mia, l'Archieball, con la quale posso produrre la musica che voglio, senza alcuna influenza industriale».
Lei è abituato ad essere il leader assoluto dei suoi gruppi. Che cosa significa, adesso, lavorare in quartetto con Roswell Rudd, Reggie Workman e Andrew Cyrille, famosi quasi quanto lei?
«È un'esperienza magnifica cominciata due anni fa, che migliora di giorno in giorno. Ormai, quando suoniamo insieme, bastano un gesto e un'occhiata per capire al volo cosa dobbiamo fare. Sono tre splendidi improvvisatori molto simili a me nei concetti e nello stile. Con loro sono ritornato giovane».
Due ore più tardi il poker dassi sale sul palcoscenico principale del Festival di Roccella, lAnfiteatro ai piedi del castello che dà il nome alla città. I musicofili di lungo corso mostrano occhi lucidi di emozione: ciascuno di quei solisti ha scritto pagine fondamentali della storia del jazz, ha influenzato altri virtuosi, ha diretto complessi propri. È possibile ascoltarli dedicando di volta in volta unattenzione particolare a uno di loro e apprezzarne ancora di più, in questo modo, la tecnica e le capacità espressive. Si capisce presto che il vero direttore del quartetto è Roswell Rudd; i capelli e la barba candidi lo fanno rassomigliare a un frate di antico pelo, ma la sonorità e il fraseggio poderosi sono inalterati. Shepp conserva la cifra inconfondibile del caposcuola, partecipa con classe impeccabile allesposizione dei temi, e però i suoi assoli sono prudenti e limitati. I ruggiti contestatori del passato sono rari, e sovente il maestro si rifugia nel pianoforte che strimpella in modo appena accettabile; per fortuna lascia quasi a riposo il sax soprano, sul quale ha sempre avuto problemi dintonazione non lievi.
Alla fine, tra le quinte, Shepp è affabile e gentile. Sorride e firma dediche affettuose a belle ragazze che gli chiedono un semplice autografo. Dice: «Che bello trovarmi qui, davanti a questo mare meraviglioso. Lo sapete? È il mio unico concerto italiano dellestate». Qualcuno, nei paraggi, rievoca Shepp trentenne, inavvicinabile e antipatico.
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