ARPAIA Il passato che non riesce a passare

Un’autobiografia degli anni Settanta narrata da chi allora era ragazzo: atmosfera, tic, tabù, manie, parole d’ordine ricostruite in maniera esemplare. Ma con un vizio di fondo...

Intorno alla mia piccola isola di esule e di sconfitto, estraneo e distonico rispetto al proprio tempo e quindi condannato a servire a poco e a non contare niente, la risacca della storia si diverte anno dopo anno a depositare fallimenti intellettuali piccoli e grandi, illusioni perdute, ideologie arrugginite, giovinezze bruciate, fini che non valevano i mezzi, mezzi che non giustificavano i fini. Sono i relitti di ciò che nella seconda metà del Novecento si chiamò via via boom economico e contestazione, alternativa al sistema e anni di piombo, riflusso e Prima Repubblica, Tangentopoli e bipolarismo, destra e sinistra... Che siano sotto forma di biografie esemplari, ovvero rappresentative di un clima e di un’epoca, o di opere di narrativa, saggistica, cinematografia, raccontano il loro «come eravamo» generazionale nel segno del disincanto, dell’amarezza, della rabbia, dell’ambiguità. Convinti di poter incarnare lo Zeitgeist, lo «Spirito del Tempo», è stato proprio quest’ultimo a presentargli il conto. La morte a credito, rata dopo rata, di chi per essersi indebitato di utopia sconta da vecchio ciò che da giovane pensava fosse gratis.
L’ultimo relitto che mi si è arenato sulla riva è questo imponente romanzo di Bruno Arpaia, Il passato davanti a noi (Guanda, pagg. 506, euro 17), gli anni Settanta narrati da chi allora era ragazzo e trent’anni dopo cerca di capire che cosa non funzionò, quando fu che ci si accorse di non poter cambiare il mondo, perché dal sogno si passò all’incubo. Costruito in maniera corale, alternando e/o mischiando lo ieri e l’oggi, Arpaia ne ricostruisce in maniera esemplare l’atmosfera, tic, tabù, manie, parole d’ordine: come ci si vestiva e che cosa si leggeva, come si amava e che cosa si odiava. Lo fa sul versante di quella sinistra giovanile, impegnata e intellettuale, che di quel decennio fu la riconosciuta «etnia» in quanto ne modellò lo stile, ne orchestrò i comportamenti: egemone e però convinta di essere minoritaria, al potere nei gusti, nelle scelte, nella quotidianità dei comportamenti, ma con l’idea di stare all’opposizione, sempre e comunque con la presunzione di aver ragione, «la meglio gioventù» con in mano le chiavi della verità, della rivoluzione, della vita.
È su queste aporie che dopo è andato tutto in pezzi, e l’estremista si è ritrovato manager, l’operaista è andato a lavorare nelle multinazionali, il pauperista si è fatto la barca, il sindacalista si è ritrovato «tagliatore di teste» aziendali, il comunista si è riscoperto socialdemocratico...
Ben scritto, con una lingua che riprende e aggiorna sonorità dialettali, organico nel suo alternarsi di passato e di presente, felice nel delineare psicologie e turbamenti, pervaso da una maliconia sottile che non si fa mai melassa, Il passato davanti a noi è un bel romanzo e Arpaia uno scrittore di talento, fra i migliori della sua generazione.
Ciononostante, Il passato davanti a noi è un libro, non so come dire, sbagliato, e l’errore non sta nella scrittura, ma nello scrittore. Ancora convinto che «la storia siamo noi», l’io collettivo gli impedisce di fare i conti, sino in fondo e senza sconti, con gli «io» individuali, il suo compreso, che lo compongono, e non si accorge che la generazione è un alibi, e il sentirsi parte della storia nient’altro che un’attenuante. Così, ogni piccola o grande scelta presente nel romanzo non è mai realmente autonoma, frutto di una consapevole decisione, ma si lega sempre a qualcosa che la ispira e in fondo la giustifica. Ciò fa sì che se il fallimento, alla fine, è collettivo, essendo tutti colpevoli paradossalmente non lo è nessuno, se non il destino cinico e baro che si mette di traverso al treno della Storia per farlo deragliare.
Bravissimo nel raccontare e nel ricostruire una stagione italiana, Arpaia arriva a comprenderla, ma non se la sente di giudicarla, se non, appunto, nel nome di un indistinto passato che non passa, di un «noi» che trascende e comprende ogni «io» e quindi lo annulla. Ma se non la si fa finita con la pretesa che si avesse ragione anche quando, e soprattutto, si aveva torto, se si continua a non voler vedere che quel processo mimetico di immedesimazione collettiva era appunto mimesi, finzione, imitazione, maschera e non volto, caricatura e non dramma, se non si accetta l’idea che gran parte della elaborazione ideologica e politica del tempo era raffazzonata e non si traggono da tutto ciò le dovute conseguenze, ci si condanna a non capire che cosa è successo dopo, perché il Paese è quello che è.

Si preferisce invece ripiegare sul tradimento degli ideali, la «giusta causa» e l’ingiusta, immeritata sconfitta, ancora e sempre la orgogliosa minoranza dei migliori costretta a subire la volgare occupazione dei peggiori... Arpaia ha scritto un bel romanzo, ma, se lo lasci dire da uno che lo legge e lo stima, deve ancora scrivere il «suo» romanzo, deve imparare a perdere da solo.

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