Ascanio in Alba: gioia di voci dal giovine Mozart

Lorenzo Arruga

da Milano

E allora esistono anche i segni buoni, in questo mondo spampanato e cinico del teatro d-opera. Eccone uno fresco: l-Accademia di Canto della Scala, diretta con ispirata sapienza e brontolii geniali da Leyla Gencer, sforna artisti splendidi. Alla «prima» di Ascanio in Alba, alla Scala, era una gioia e una meraviglia ascoltarli, sciolti, intonati, capaci di inerpicarsi con bravura e classe nelle ardue tessiture di Mozart giovinetto come fino a qualche anno fa sarebbe stato già difficile immaginare. Teresa Romano sostanziosa e sicura, Nino Marchaidze meritatamente benedetto dalla natura, Tiberius Simu preciso ed elegante, Ye Won Joo spericolata e perentoria, son stati accolti da affettuose acclamazioni.
Certo, fra i piaceri che danno ci sarà quello di sentirli crescere: qualche accento di meno, un poco di dominio e di tranquillità in più, qualche segreto personale scoperto e rivelato verranno con l’esperienza: le qualità che potevano scoprire nell’altrettanto brava e un poco più matura Ann Hallenberg fra loro. Soprattutto se saranno messi più a loro agio da un direttore che abbia familiarità con l’opera; perché questa volta Giovanni Antonini, eccellente musicista capace di suggestive atmosfere, viene dalla prassi strumentale barocca, meritoria, ma che sembra adottare la respirazione branchiale, incalzando costantemente.
E anche se verranno immessi in storie con personaggi veri: non come in questa «festa teatrale» in onore smaccato dell’Imperatrice (proprio genere lecca-lecca, andiamo piano a rimpiangere troppo i secoli passati), dove la Corte è sovrapposta agli Dei e ai pastori, in un festival di arie solitarie, ancorché con la grazia mozartiana.

Il regista Franco Ripa di Meana, poi, ha aggiunto di suo l’elogio della Milano di sempre, con annesso un filmato vorticoso sulla ricostruzione della Scala, e un viavai di quadri e pecore e un su e giù di talami, di amabile genere postmoderno (scene di Sanchi, costumi di Carla Teti non bene addobbati sui personaggi, coreografia vivace di Giorgio Mancini); ma il piano non banale e nato dallo studio del testo, non regge a lungo, e proprio al clou della drammaturgia si ricorre al sipario chiuso e alle quinte nere, e non si capisce se siano finiti i soldi o le idee. Sforzo comunque generoso: l’orchestra dell’Accademia è pulita; con i giovani direttori di quest’anno è nata la tradizione di spingere fuori tempo il coro, ma non è detto che in seguito non venga abbandonata.

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