Il destino nel nome. Così si potrebbe dire, scimmiottando il titolo di un famoso film, a proposito di Kemal Atatürk (1881-1938). Nei molti appellativi del padre della moderna Turchia sembra esserci di mezzo il fato. Allinizio fu solo Mustafa, che in arabo significa «il prescelto». Così lo chiamavano nella sua piccola famiglia medioborghese di Smirne: urlando quel nome lo rimbrottava la madre, musulmana e conservatrice, sussurrandolo più dolcemente lo consolava il padre, progressista e laico. Poi a scuola, per il maestro di matematica, divenne Kemal che significa «perfezione», perché la sua abilità col calcolo era enorme.
E lui, anche da militare e da politico amante di rivoluzioni modernizzanti, a quel nome non volle più rinunciare. Così quando, per sua volontà, una Turchia che cercava di emanciparsi si piegò alluso occidentale dei cognomi lui divenne, per acclamazione parlamentare, Kâmal Atatürk («il padre di tutti i turchi»). Poi anche le grafie vennero semplificate, e il turco riportato alla semplicità delle sue forme antiche, Kemal Ataturk: quellicona patriottica che ancora il preambolo della costituzione ricorda così: «il leader immortale e leroe senza rivali».
Ecco, si potrebbe ricostruire a partire dal gusto per gli eponimi la parabola di un personaggio che ha cambiato il destino del Medioriente e di unEuropa che è ancora qui a chiedersi se Ankara debba entrare o meno a far parte dellUnione. È quello che fa, aggiungendovi molta dottrina, lo storico Fabio L. Grassi in Atatürk (Salerno, pagg. 444, euro 29), un ponderoso volume che riempie i vuoti della storiografia italiana in materia. I pregi del testo stanno nella chiarezza di esposizione e nella capacità di ricostruire, attraverso i destini di un singolo uomo, il complesso cambiamento che ha trasformato il «grande Impero malato» in una nazione molto più piccola ma in cui i germi della modernità hanno attecchito con forza, seppur costretti a convivere con il peso di una centenaria tradizione.
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