Bartoletti dà «Un giro di vite» a Britten

Il direttore, con la collaborazione di Luca Ronconi, convince con l’opera sugli spettri del grande compositore inglese

Bartoletti dà «Un giro di vite» a Britten

da Parma

C’è voluto il XXI secolo per capire l’importanza di Benjamin Britten, l’operista che il Regno Unito aspettava dalla morte di Henry Purcell nel 1695 e che il Novecento non si sarebbe mai sognato. Un drammaturgo allo stato puro per coinvolgimento e voracità inventiva quanto «moderno» nella complessità strutturale dove i più diversi stili e linguaggi vengono maneggiati con assoluta perizia.
Prendete Il giro di vite, dal racconto di spettri di Henry James, «opera da camera» (13 strumenti) anno 1954 in cui il male degli adulti, siano ombre di defunti o figure in carne ed ossa, distrugge la vita e l’innocenza dei bambini: uccide Miles e costringe alla fuga (da se stessa anzitutto) la sorellina Flora. L’imperativo fanatico dell’Istitutrice - salvare i bambini - nuoce come lo spettro luciferino di Quint col suo canto da sirena.
Presentato a Parma, al Teatro Regio per la prima volta, il capolavoro di Britten ha trovato un pubblico ricettivo, se non la folla per gli appuntamenti verdiani, e un allestimento esemplare. Luca Ronconi e i suoi usuali collaboratori (Margherita Palli per le scene, Vera Marzot per i costumi) sono fedelissimi al libretto e all’ambientazione vittoriana. La regia, come è giusto, lavora sugli attori: su bimbi che il male rende straziati e grotteschi da subito, su adulti confusi o ciechi. Drappi soffocanti, una natura finta perché troppo colorata o tutta grigia, brandelli di elementi scenici (poltrone, un lettuccio, il gelo funerario di una stele) accostano e mescolano reale e surreale.
Bruno Bartoletti dipana il Novecento con la limpidezza e la tensione che gli sono proprie. Grande maestro, ottiene dal gruppo da camera risultati ammirevoli. Accentua poi la pietas di Britten per le vittime dell’esistenza, certi inquieti stupori della natura, l’espressionismo di campane come impazzite, l’angoscia della celesta quale simbolo del male, i controcanti strumentali accorati che però non possono soccorrere anime perdute.
Jacob Moriarty e Fleur Todd, i piccoli cantori, si muovono da attori consumati e con la civiltà vocale della tradizione britannica. Marlin Miller, il Prologo, preferisce introdurre la vicenda con disegni vocali netti piuttosto che un «inchiostro sbiadito» come da libretto. Gun-Brit Barkmin è Istitutrice ideale per trapassi di stati d’animo e lacerata isteria possessiva. Debora Beronesi risolve bene il piatto realismo e la debolezza della Governante.


La desolazione è il Leitmotive di Patrizia Orciani-Miss Jessel e il vocalizzo incantatorio, catturante come sa essere il male, è il modo in cui Miller, da Prologo eloquente, si muta in un Quint di ricercate, arcane sottigliezze. Successo - questo - senza ombre.

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