Battaglie di retroguardia truccate da «Prima Linea»

Molotov e comizi, crimini e arruolamenti temporanei. Un libro ricostruisce la storia dell’«organizzazione volontaria di combattenti per il comunismo»

Battaglie di retroguardia truccate da «Prima Linea»

Negli anni Settanta andare a vedere un film western come Il mucchio selvaggio in un cinema di Torino, di Milano, di Firenze, di Bergamo, significava molto probabilmente avere nella poltroncina di fianco alla nostra un terrorista. Quasi certamente non era un esponente delle Brigate Rosse, uomini e donne austeri che vivevano fino in fondo la loro scelta di clandestinità e non l’avrebbero mai messa a rischio per un film americano. Altamente probabile, invece, che fosse uno dei loro «cugini» più scapestrati, esuberanti, bohémien, amanti del buon cibo e del buon vino, quelli di Prima Linea.
Così li descrive Giuliano Boraso in Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Linea (Castelvecchi, pagg. 277, euro 18), il primo saggio a occuparsi specificamente delle origini, dei componenti, della filosofia, delle condizioni sociali e politiche in cui nacque, fiorì e cadde «l’organizzazione volontaria di combattenti per il comunismo». Un libro scritto da uno che in quegli anni praticamente non c’era ancora (essendo nato nel 1975, un anno prima della sua costituzione ufficiale) a uso non solo di chi non c’era e vuole saperne di più, ma anche di chi c’era e ha dimenticato, ha rimosso, o «ci è ancora imprigionato dentro».
L’analisi è ricca e approfondita. Come documenti troviamo stralci di sentenze, articoli di quotidiani, testi di rivendicazioni, scritti programmatici, libri sul fenomeno della lotta armata, slogan di piazza, volantini e soprattutto testimonianze scritte e orali dei diretti interessati. Sono queste ultime, insieme alle vicende personali, a suscitare le impressioni più forti in mezzo a una serie interminabile di cortei, provocazioni, lanci di molotov, gambizzazioni, attentati, ritorsioni, crimini efferati eseguiti con una freddezza da automi. Tra le formule criptiche dei proclami vergati in un linguaggio assai ostico, a spiccare sono le parole più semplici che denunciano l’umana presa di coscienza di un comportamento disumano. Come fa il ragazzo incarcerato che scrive alla madre: «Io non dico che quello che facciamo noi sia bello, sono convinto che in tutto questo c’è qualcosa di tragico e triste, dico soltanto che è giusto, necessario, l’unico percorso - quello della guerra - che vale la pena di essere vissuto a meno di non essere complici, anche se involontari, di questa società e dei suoi meccanismi perversi».
E davvero «qualcosa di tragico e triste» c’è sia nella dimensione personale sia nel quadro storico. I ragazzi di Prima Linea sono in gran parte giovanissimi, in prevalenza studenti di estrazione borghese, pochi operai. Sono persone legate tra loro da forti vincoli di amicizia o di parentela, prima che da sodalizi ideali. Leggendo le loro biografie è incredibile, straniante, pensare che abbiano contribuito in maniera rilevante a convertire il sogno pacifista e floreale del Sessantotto nell’incubo militarista e sanguinario del Settantasette. Esemplare la vicenda di Roberto Rosso, che viene da un «ambiente famigliare laico e progressista», frequenta con profitto il liceo e la Gioventù Scolastica di don Giussani, prima di approdare alla lotta armata insieme a tanti come lui.
Per i loro comizi improvvisati scelgono l’angolo di strada, la piazza, la trattoria. I proseliti non mancano. A centinaia aderiscono al progetto di spingere alla rivoluzione i quartieri delle metropoli vivendoci dentro e parlando a viso aperto con la gente, diversamente dai brigatisti, che si autoescludono dalla vita pubblica. A migliaia partecipano a vario titolo al movimento, che ha carattere fluido: puoi entrare, partecipare a un’azione e uscire. Quasi un gioco di ruolo, più che una scelta di vita.
Anche per questo i «cugini» delle Br li accusano di «dilettantismo rivoluzionario». Tra loro e i piellini c’è competizione. Non a caso solo una di loro, Susanna Ronconi, lascia i brigatisti per passare alla concorrenza. E di vera concorrenza si deve parlare se si vuole capire l’origine della svolta, il punto di non ritorno che trasforma quei gruppi di amici in macchine da guerra, o meglio da guerriglia. Il casus belli è il gesto più clamoroso dei brigatisti, il sequestro-assassinio di Aldo Moro. A questo punto Prima Linea non ha altre scelte possibili che smettere o alzare il tiro. La scelta è tristemente nota. La via dell’omicidio politico viene seguita senza sistematicità, con furore cieco, con una tattica da banditismo. Fino all’inevitabile tracollo, quando il movimento perde completamente il già calante consenso nel popolo, compreso quello di sinistra.
La contestazione di Prima Linea comincia nella redazione di Senza Tregua, nel servizio d’ordine di Lotta Continua, in Potere Operaio, nell’area degli autonomi. La loro sete di giustizia finisce nel tentativo aberrante e velleitario di accelerare la disgregazione del «sistema» colpendo a casaccio, seguendo l’istinto e gli odii del momento. In mezzo, la deriva della violenza verbale in violenza fisica da contrapporre alla violenza della trasformazione capitalistica della società, accompagnata dalla convinzione che in Italia la rivoluzione proletaria sia ostacolata da un golpe di destra sul modello di quello di Pinochet in Cile.
I recenti sviluppi giudiziari su piazza Fontana danno ragione a chi denunciava la strategia della tensione, anche se non arrivano fino in fondo sulle responsabilità politiche. Chiarissima, invece, in sede storica, la corresponsabilità della classe politica nei rapporti con la sinistra extraparlamentare. Del Pci è il duplice errore di delegittimare le sue pur confuse istanze politiche e sociali e contemporaneamente di stringere un’alleanza con la Dc. Il compromesso storico, infatti, viene vissuto come un tradimento da chi, vittima di un «delirio ideologico», ormai accorpa fascismo, neofascismo, Dc e istituzioni dello Stato in un unico Leviatano da abbattere con ogni mezzo, compresi perfino i pochi che stavano provando a instaurare un dialogo, come il giudice Alessandrini. Oggi, dopo avere scontato il debito con la giustizia, la maggior parte di loro è impegnata nel sociale. Sergio Segio, ad esempio, nel Gruppo Abele di don Ciotti, come in una continuazione di quella lotta alla droga che già aveva caratterizzato la sua militanza lottarmatista trent’anni fa.
Un’ultima riflessione merita un aspetto fondamentale della vicenda, utile forse a chiarire «perché in Italia il paradigma della violenza politica (priva di motivazioni etniche, religiose, indipendentiste) ha attecchito nella società come in nessun altro Paese dell’Europa occidentale». Lo spunto viene da due dichiarazioni riportate nel libro. Una di Luciano Lama che definisce il Settantasette un «movimento disperato», del tutto privo di «utopia, slancio, voglia del mondo, valori, fedi, per quanto radicali. Solo cupezza e violenza». L’altra di un militante che esce da una riunione avendo ben chiaro «contro cosa siamo, ma non cosa siamo e dove vogliamo andare». Alla fine, di fronte al fallimento dell’ideologia comunista e all’inadeguatezza del mito della Resistenza, dell’antifascismo ereditato e assimilato attraverso i racconti di altri, paradossalmente ciò che davvero è mancato è proprio lo spirito utopico.

Un sogno che facesse leva sul forte senso di appartenenza di quei gruppi di amici e lo trasformasse in qualcosa di molto diverso dall’esito storico: un grado difficilmente immaginabile di solitudine, di disperazione, di indifferenza alla morte. Proprio come nel film americano visto al cinema.

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