da Cannes
Pugni in tasca e sassi nelle scarpe: Marco Bellocchio stringe gli uni e toglie gli altri quando ha appena lasciato le vesti di giurato del concorso nel Festival di Cannes.
Primo bersaglio dei pugni e dei sassi, Quentin Tarantino, reo di aver constatato anche lui che il cinema italiano è poca cosa. «Tarantino - sostiene Bellocchio - non può dare lezioni. È un bravo regista, ma nel dire certe cose è anche un cafone che non capisce niente». Noblesse oblige... Secondo bersaglio dei pugni e dei sassi, un europarlamentare di Forza Italia, Renato Brunetta, severo con la scarsa qualità del nostro cinema, al punto da invocare l'abolizione del Fondo unico per lo spettacolo (Fus). «Le sue dichiarazioni - dice Bellocchio - sono proprie di certi politici incompetenti, che sindacano su cose di cui non capiscono nulla; di gente che pensa che un film sia solo quello che incassa al botteghino e ignora i dvd e i passaggi tv».
Bellocchio ha ragione quando accusa, ma non trova argomenti per negare il declino del nostro cinema. L'unica sua osservazione costruttiva è che esso «soffre perché fa riferimento allo stallo anche politico della nostra società. Vanno forte solo i film di evasione, film che assomigliano alla tv e ai suoi ritmi. Siamo contaminati da questi ritmi, che danneggiano la nostra volontà di raccontare in modo diverso. Invece vanno ritrovati questa pazienza e i nostri tempi».
Sbrigati gli affari correnti italiani, che al Festival francese l'hanno occupato almeno quanto le proiezioni del concorso, Bellocchio si volge contro il medesimo, sebbene esser stato giurato imponga il riserbo anche a Festival finito. Ma le parole date a Gilles Jacob son evidentemente fatte per non esser mantenute. Così ieri si sono sentite da Bellocchio esternazioni degne di Cossiga: «Visti i film del concorso, due italiani in corsa per la palma potevano starci». Vero, ma a Bellocchio sfugge che il Festival di Cannes, come quello di Berlino e come la Mostra di Venezia, a pari qualità di film, opta per quelli di una cinematografia svantaggiata, rispetto a quelli di una cinematografia avvantaggiata, come l'italiana. Ed è giusto, perché un film romeno o uno coreano non hanno una grande tradizione alle spalle. Nel dopoguerra non godeva della stessa «comprensione» il cinema italiano?
Lo stesso Bellocchio l'ammette implicitamente, quando nota che l'onda asiatica, che ha vinto questa edizione di Cannes, ha «la sua forza nella maggiore energia e vitalità. Un po' come è stato per il nostro neorealismo». E poi quando ammette che il suo film preferito è stato il non-premiato Respiro del coreano Kim Ki-duk, perché «lui è un regista capace di ricreare un mondo irreale che sembra vero». Che Respiro non abbia avuto premi, spiega in parte perché Bellocchio ora parli a ruota libera: l'amarezza talora scioglie la lingua. Ma Bellocchio non è un esordiente, uno che possa stupirsi nel vedere che una giuria, foss'anche la sua, è fallibile. Ai grossi festival partecipa da quasi mezzo secolo e sa che non sono pure manifestazioni estetiche. Sono l'esatto contrario.
A proposito, Bellocchio giustamente denuncia che «su Alexandra di Sokurov hanno pesato motivi ideologici e che c'è stata una certa partigianeria». Insomma, un film russo, che non condanni apertamente la guerra in Cecenia, non può vincere un premio. Ma allora perché Bellocchio, davanti all'abuso, non s'è dimesso? Un episodio analogo era accaduto, sempre a Cannes, con Manderlay di Lars von Trier, come mi raccontò il giurato Jean Rochefort.
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