Bergman e l’ossessione della morte

La partita a scacchi del Cavaliere con la Morte, nel Settimo sigillo, è l’icona del cinema di Ingmar Bergman. Risale al 1956, quando il regista (1918-2007) aveva circa l’età del Cavaliere, impersonato da Max von Sydow. Dopo la trentina, la morte è una fedele compagna; Bergman però era un precursore, se già nel 1946 scriveva Il giorno finisce presto, dramma rappresentato per la prima volta l’anno dopo a Goteborg e ora tradotto in italiano da Renato Zatti (Iperborea, pagg. 102, euro 11), complice la manifestazione milanese «Fårö su Bergman».
Già qui la Morte si presenta a una quarantenne e le annuncia - per la gioia di spaventarla - che le restano ventiquattr’ore, in gran parte di luce. Siamo infatti nel Grande Nord, in estate, che è un modo più triste per sprofondare nel buio eterno. E non si racconta il finale, ma anche di quello, chi ha visto Il settimo sigillo troverà un’anticipazione in queste pagine.
Si direbbe che Bergman evocasse sempre la morte per respingerla; e che si innamorasse a ripetizione per non aver troppo tempo per pensarci. Ma la Morte non gli risparmiò egualmente un’intimazione indiretta, portandogli via nel 1994 Ingrid von Rosen, seconda moglie e grande amore, almeno per durata.

E si nota che la realtà non dà spazio all’arte: il diario bergmaniano di quell’agonia ora esce anch’esso in italiano, tradotto da Renato Zatti (Iperborea, pagg. 260, euro 15,50), insieme a quello della von Rosen e della loro figlia, Maria, col titolo Tre diari. Peccato: se fossero rimasti inediti, sarebbe stato meglio.

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