Bianco o rosso, conta il vino e non l’etichetta

Andiamo, caro Paolo Granzotto, non vorrà raccontarci che lei e i suoi amici bevete solo Tavernello! Sono una sua fedele lettrice e da quanto da lei scritto precedentemente non mi pare proprio il tipo. Avanti, confessi, che vino beve?


Lo statuto del da me fondato «Club del Tavernello» non obbliga i soci (che aumentano sempre più) a bere esclusivamente quel vino, gentile lettrice. Lo beviamo, perché no?, è un buon vino. Lo ha mai gustato? La disturba la confezione, il brik? E che sarà mai! Lo scaraffi, e sentirà. Certo, il Tavernello non è il Barolo, ma perché mai dovrebbe esserlo? No, no, il «Club del Tavernello» nacque per rivolta alla retorica del sommelier e in disprezzo dei tanti, dei molti, dei moltissimi che incantati dalle sirene enologiche bevono, andando in estasi, non il contenuto della bottiglia, ma la sua etichetta. Nacque per riunire, ancorché spiritualmente, quanti scelgono il vino che piace loro, non quello che piace al critico del «Gambero Rosso». Infine, riunisce coloro che ritengono il vino un alimento liquido più o meno buono, non il Sacro Graal. Che poi… in una memorabile trasmissione televisiva, «Report» di Luisa Gabanelli, vennero fuori certe verità sui vini Doc che non erano Doc o Docg, sulle frodi, sulle aggiunte a gogò di mosti, lieviti, gomma arabica, quella delle caramelle, che è meglio lasciar perdere. Si raccontava che se un produttore con licenza, mettiamo, di vendere 1.000 litri di prodotto Doc, in annata povera ne produce solo 800 compensa quelli che mancano acquistando altrove vino sfuso imbottigliandolo poi col bel marchio Doc in etichetta. E i controlli? «Le bottiglie arrivano in forma anonima, sigillata. Non vediamo altro che un numero», rispose alla Gabanelli una verificatrice della Camera di commercio di Firenze. Ohibò.
Al dunque, gentile lettrice. Cosa bevo (a parte il Tavernello)? In estate, e questo farà storcere i sensibilissimi nasi dei sacerdoti dell’enologia, per i quali quando si dice vino si deve intendere rosso, bevo bianco. Mi farò ancora una volta piazzista, tanto siamo inter nos: «Bianco di Custoza» della Cantina Cavalchina - uvaggio di Trebbiano, Garganega, Trebbianello, Cortese, Malvasia, Riesling e Pinot bianco: va giù che è un piacere - che alterno, da quest’anno, con un piacevolissimo, fresco «Grillo del Barone» della Tenuta Serramarrocco. L’uno vino nordico, l’altro siciliano (il vitigno si chiama proprio così, «grillo»), entrambi con un sapore loro, distinto e distinguibile, diversi quindi dai soliti Chardonnay o Sauvignon, che alla fin fine sembrano e sono tutti uguali. Quello che le posso assicurare, gentile lettrice, è che mai berrò un Sassicaia o un Gaya da 250 euro. Mai. E non perché non siano buoni, son buonissimi. Ma mezzo milione di lirette so spendermele meglio.
Paolo Granzotto

Ps: l'argomento frivolo non deve farci dimenticare i versetti della IX sura del Corano: «Annuncia a coloro che non credono un doloroso castigo. Quando siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati (…). Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada.

Allah è perdonatore, misericordioso».

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