Emanuela Fontana
da Roma
Il voto di fiducia sulla missione in Afghanistan è arrivato dopo una giornata da dimenticare per il governo, per Romano Prodi e addirittura per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a cui è stata indirizzata una protesta formale nellaula del Senato e che stamattina riceverà un appello dallopposizione su presunte irregolarità nel voto di ieri. Il governo ha posto la fiducia a Palazzo Madama sullarticolo 2 del decreto, quello che nella fattispecie parla della missione afghana, ma ha dovuto fare i conti con parecchi «non ce nera bisogno» nelle fila dellUnione, con il raddoppio dei cosiddetti dissidenti, quelli che hanno votato per forza e solo perché vi era in gioco la fiducia, passati da 8 a 16, e con lassenza totale dellopposizione nel voto, che si è consumato dunque allinterno della sola maggioranza. La seduta si è conclusa con 159 «sì» alla fiducia al governo e con una lunga contestazione della Casa delle Libertà, che ha chiesto un secondo voto per mancanza del numero legale. Determinante anche il «gioco» dei senatori a vita: quattro (Ciampi, Cossiga, Pininfarina e Scalfaro) erano in missione, Emilio Colombo e la Montalcini hanno votato «sì» mentre il senatore Andreotti era assente.
«Non è mai successo nella storia del Senato - ha detto il presidente dei senatori di Forza Italia Renato Schifani lasciando laula - che il presidente dellAssemblea venga computato nel risultato del voto». Loggetto della contestazione è stato proprio il conteggio del presidente Franco Marini tra i 160 presenti, che ha reso legale il numero dei votanti della seduta. «Penso che domattina - ha annunciato Schifani - ci riuniremo per un ulteriore appello al presidente Napolitano. Così non si può andare avanti. È una cosa che non ha precedenti. Larbitro è sceso in campo ed è stato determinante per la vittoria di una squadra. Con il computo del voto dellarbitro la partita è stata vinta da chi giocava con 12 giocatori».
Una conclusione al veleno tra i due schieramenti, ma la cronaca della giornata è stata soprattutto un difficile equilibrio per la maggioranza tra le ragioni di governo e le ragioni «del cuore».
I sensi di colpa per un «sì» alla missione che inorridisce le associazioni pacifiste sono fioccati ieri a palazzo Madama: da Cesare Salvi (Ds) che nel suo intervento ha ricordato che «la pace non si fa con i carrarmati», a Armando Cossutta (Pdci)che ha sottolineato come «non cera bisogno» che il governo ponesse la fiducia, alla frustrante presa di posizione dei dissidenti, che con Claudio Grassi, di Rifondazione Comunista, hanno chiarito che «se fosse stato messo in votazione come un disegno di legge non lo avremmo votato».
Così è andato in scena lo psicodramma interno allUnione sulla bontà della guerra, perché di guerra si tratta per la missione afghana su volontà della Nato, con dolorose puntualizzazioni tra colleghi addirittura dello stesso partito. Il gruppo di Rifondazione comunista al Senato è stato costretto a un comunicato in cui ha chiarito che «siamo tutti pacifisti», dopo linaspettato raddoppio dei ribelli, i forzati del sì: «Il documento sullAfghanistan e sulle missioni allestero sottoscritto dai 16 senatori dellUnione - recita il comunicato del gruppo del Prc - cinque dei quali del gruppo di Rifondazione comunista, ripropone uninfondata distinzione tra senatori presunti pacifisti e altri che evidentemente non vengono considerati tali».
La seduta è stata aperta dalle presa di consapevolezza del ministro per i Rapporti con il parlamento Vannino Chiti, il tessitore della difficile soluzione finale della fiducia, imposta per evitare che il provvedimento passasse, ma con 16 probabili «no» dellopposizione e i sì di tutta la Cdl. Per il governo sarebbe stato un ribaltamento di maggioranza e una prova di grande debolezza della coalizione. Ma la fiducia ha lasciato strascichi e non tutte le coscienze a posto, ieri notte, dopo il lungo voto finale. «Il Paese - ha dichiarato quindi Chiti - nella difficile situazione anche internazionale e per i compiti che noi abbiamo nel prossimo autunno nella missione impegnativa della legge Finanziaria, non ha bisogno né di incertezze, né di instabilità e né - la precisazione - di maggioranza a geografia politica variabile».
Chiti ha tentato di richiamare lorgoglio con parole ricche di pathos: «Sfidato anche sullesistenza e sulla tenuta della sua maggioranza, il governo ha il dovere di rispondere in sede parlamentare consentendo la verifica dellesistenza della sua maggioranza». Ecco andare in scena quindi il ricatto per i dissidenti, così lo aveva definito nei giorni scorsi il verde Mauro Bulgarelli, che sono riusciti almeno a far approvare sette emendamenti «ispirati alla pace» e un ottavo (di Bulgarelli) trasformato però in «raccomandazione» che impegna il governo a prevedere listituzione di un «organismo di monitoraggio sul transito di materiale bellico su territorio nazionale».
E se la Lega ha esibito un cartello-scandalo «Prodi dittatore in aula», i ribelli di Rifondazione hanno chiarito di non aver gradito le parole del presidente della Repubblica. «Il presidente Napolitano - ha esordito Grassi - ci ha definiti anacronistici: è un termine offensivo che respingo. Al presidente Napolitano vorrei rispondere con le parole di un altro presidente». Grassi è stato rintuzzato in aula dal compagno di partito e in quel momento sul banco della presidenza in qualità di vicepresidente Milziade Caprilli: «Senatore Grassi, è il presidente della Repubblica...». Ma il «ribelle» ha tirato diritto citando le parole sulla pace di Sandro Pertini nel messaggio di fine anno del 1983.
«Il governo è avvertito - ha invece chiarito il senatore del Prc Gigi Malabarba - da otto i dissidenti sono diventati sedici e promettono di diventare assai di più se non verrà imboccata una exit strategy nei prossimi mesi». Malabarba lascerà il suo posto da senatore proprio perché «non cè più dibattito qua dentro: anche ora, si poteva dare la possibilità a chi voleva votare contro di dire di no e allopposizione di votare sì».
Lopposizione invece ha chiuso la seduta minacciando loccupazione dellaula. «Capisco che la differenza di un voto, purtroppo questaula è divisa a metà e cè la differenza di un solo voto, possa essere un elemento di nervosismo. Ma qui è tutto chiaro», ha chiuso la questione del conteggio del presidente Franco Marini, non senza alzare la voce nei momenti finali del dibattito del dopo-voto.
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