Sono le musiche in estinzione, le canzoni degli outsider, quei suoni che i furbacchioni del music business sfruttano e rivendicano sul mercato del rock e del pop (come grandi novità) sotto l’abusato nome di «contaminazioni». Sono i 31 generi tradizionali «perduti, ritrovati» al centro di La musica dell’assenza (Arcana, pagg. 250, euro 16,5) titolo di un originale saggio di Gianluca Grossi (con tre scritti di Vinicio Capossela, Massimo Bubola, Carlo Muratori).
Musica dei perdenti per eccellenza è il blues, figlio dello sradicamento culturale e spirituale degli afroamericani, nato nel clima subtropicale delle piantagioni di cotone del Mississippi grazie ad artisti di strada come Son House, Robert Johnson e poi evolutosi elettricamente a Chicago con Muddy Waters e i suoi allievi. Oggi pare incapace di rinnovamento, e può contare su un numero sempre più ristretto di appassionati (fedelissimi, però). Se il blues, il bluegrass e la musica country dei Monti Appalachi hanno segnato profondamente la musica moderna, quasi nessuno conosce lo Shidaiqu, curioso incrocio tra folklore cinese e jazz americano diffusosi in Cina nel periodo della guerra fra i Nazionalisti del generale Chang Kai Shek e i comunisti di Mao. Sono composizioni dalle melodie orecchiabili fatte con sax, xilofono, maracas, violini, disprezzate dai maoisti ed esplose a Hong Kong con artisti come Li Jinhui. Dagli anni ’60 lo Shidaiqu rinasce in Cina e si modernizza con artisti come Jay Chou (vicino anche al rap e allo r’n’b) e a David Tao (laureato in psicologia a Los Angeles e persino poliziotto in quella città) che fonde i ritmi tradizionali cinesi con l’hard rock.
La corsa al modernismo e i mass media hanno dato una sonora mazzata alle musiche tradizionali ma non a quella irlandese, che vive ancora la sua quotidianità nei pub e negli eventi sociali (ai matrimoni si ballano ancora i reel e le gighe). Le ballate irlandesi hanno un fascino irresistibile in tutto il mondo (classici come Danny Boy vengono ripresi in Usa da Johnny Cash come in Italia da Peppino Di Capri) gruppi come i Chieftains sono più famosi della birra Guinness e, unendo trasgressione e radici, Shane MacGowan è uno degli inventori del folk punk.
Così come il boogie woogie e il pianismo barrelhouse sono nati nei bordelli di New Orleans, nelle case chiuse e nei bassifondi delle città magrebine degli anni ’30 e ’40 è nato il Raï, un grido di protesta «contro le tradizioni tribali, l’oscurantismo religioso, il malgoverno». Non a caso Raï vuol dire opinione, ha come storica rappresentante l’ultraottantenne Cheikha Rimitti e come interpreti più arrabbiati Cheb Mami e Cheb Khaled.
Tornando all’antico la guerra greco-turca (innescata da questi ultimi nel 1919) provoca il rimpatrio di circa due milioni di greci: è qui che nasce il Rebetiko, il canto di protesta dei rimpatriati, che non riescono ad abituarsi ai vecchi costumi e vengono malvisti da chi non ha mai lasciato la Grecia, poi eclissatosi negli anni Sessanta con l’avvento del r’n’r.
Accanto a generi come la Rumba, il Cajun (strettamente legato al rock) che viene dalle paludi della Louisiana (ricordiamo Daniel Lanois e il re del Cajun Clifton Chenier che suonava bardato con lungo mantello e corona), dalla Samba al Tango al Gusle (simbolo della Croazia folk), c’è spazio anche per l’inatteso: il nostro patrimonio folcloristico.
Ecco dunque la musica popolare lombarda e le canzoni che risalgono al libro Margherita Pusterla di Cesare Cantù (1838), passando per le «bosinate», canti satirici particolarmente vivaci in Lombardia e saltabeccando da Crapa pelada (che si vuole scritta da Gorni Kramer) a Cochi e Renato, da Arrigo Boito che si fa portavoce della canzone folk a Giovanni D’anzi e Alberto Bracchi arrivando - senza soluzione di continuità - ai Gufi. Ce n’è per tutti i gusti e tutte le categorie per trasformare questa «assenza» in una ingombrante e fragorosa presenza.
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