Politica

Bombe su Cana: 57 morti, strage di bimbi

Si scava ancora sotto le macerie. Quindici delle piccole vittime erano disabili. Siniora accusa Israele di «terrorismo di Stato»

Luciano Gulli

nostro inviato a Cana

«Molte bambine, quelle più grandicelle, avevano giocato a fare il girotondo fin oltre mezzanotte. Certo che non avevano voglia di giocare, con le bombe che cadevano sempre più vicine. Era solo un modo per farsi coraggio. E poi non si può piangere sempre. In un altro angolo del seminterrato, ai piedi delle scale, c’era un gruppo di mamme che si erano messe insieme per accudire i più piccoli. Fuori si stava scatenando il terremoto, ma loro cercavano di tenere allegri quei bambinetti ritmando con le mani certe canzoni di qui. Cantavano una filastrocca piuttosto popolare, quella che dice: «Arrivano i cattivi, ma non ci prenderanno», quando io me la sono filata. Non c’era più posto per sdraiarsi, eravamo stretti come sardine. Così, rischiando la pelle, mi sono fiondato fuori, alla ricerca di un altro riparo».
Il caso, come sempre. Ahmed, l’elettrauto del paese, magro come una cincia, il naso a becco imbiancato dalla polvere di calcina e un pomo d’Adamo che gli balla ancora in gola dallo spavento, ha la faccia dei sopravvissuti. Fantasmi con lo sguardo vuoto che si domandano, e si domanderanno per tutta la vita, perché gli altri sì e lui no. Il caso, come sempre. Qui davanti, dove c’era una bianca palazzina a tre piani, bianca come le altre che punteggiano questo desolato quartiere popolare, vetrioleggiate dalle schegge e senza più un vetro alle finestre, c’è solo una montagna di macerie. Vi si erano rifugiati in un centinaio. «Ma forse eravamo di più», corregge Ahmed. Cinquantasette sono morti. E 37 - ma altri certamente sono ancora lì sotto - erano bambini. Di questi, 15 erano disabili.
Mariam, che aveva sei anni, era arrivata nei giorni scorsi con i genitori da Blida, uno di quei villaggi di confine sui quali erano caduti i volantini degli israeliani. «Andatevene prima che sia troppo tardi», c’era scritto; o qualcosa del genere, racconta chi li ha visti. Ora, la coda di cavallo di Mariam, intrisa di polvere, sobbalza nel vuoto, mentre le braccia di un soccorritore con la tuta arancione della Croce Rossa regge il suo corpicino senza vita. Escono a uno a uno dalle macerie: un bambino che avrà avuto quattro anni, i calzoncini corti con la scritta «Tiger» e una canottiera bianca; una piccolina completamente nuda, morta abbracciata a quella che forse era la sorella più grande, una decenne, si direbbe, che ha ancora gli occhi sbarrati e i calzoncini con la faccia di Barbie. Non hanno ferite da schegge. Sono morti schiacciati, soffocati, quando la bomba è caduta accanto all’edificio, scavando una buca enorme, e quello se n’è venuto giù per lo spostamento d’aria, come una scatola da scarpe finita sotto un Tir. I loro volti hanno tutti lo stesso colore: quello del cemento. Allineati per terra, coperti da un cencio, le facce di cenere, e l’altro ieri giocavano.
La scena è agghiacciante. Guardi, perché non puoi farne a meno. E perché una volta nella vita hai scelto di fare questo mestiere, e ora si è fatto tardi per farne un altro. Ma la barbarie, l’orrore che sale da queste scene atroci prende alla gola, è una spada che ti trapassa lo stomaco. Qualcuno, anche fra il personale della Croce Rossa, non regge. Si allontana, curvo in avanti, vomita.
Ci sono braccia e gambe che emergono dalle macerie, come manichini, pezzi di spaventapasseri abbandonati su cui ballano sciami di mosche. E quando si finisce di scavare eccoli lì: due fratellini, si direbbe, accucciati come se dormissero ancora.
Si scava con le mani. Altro non c’è. «Le ruspe, le pale meccaniche sono a Tiro, 14 chilometri più in su», dice uno. «Ma non arriveranno mai. Tiro è ancora sotto i bombardamenti».
C’è una mamma, portata via cinque minuti fa da un’ambulanza, che si è salvata da sola, portandosi dietro la sua bambina di un anno. Ha scavato con le mani fino a ridursele come moncherini insanguinati. Ma sono vive, tutte e due.
«Dio abbia pietà di questi bambini - dice una donna vestita di nero, sciita come tutti, qui a Cana -. Erano stati messi qui perché sembrava un buon posto...».
Ma perché tutti questi bambini radunati in una sola casa? E ancora: c’erano gli Hezbollah, in questa palazzina? È vero che avevano tirato da queste finestre, come sostengono a Gerusalemme? E che un furgone (gli israeliani hanno mostrato un filmato ai giornalisti) aveva sparato dei razzi dalla periferia del paese per andare poi a parcheggiare sotto una casa del quartiere bombardato? E se i miliziani dello sceicco Nasrallah avessero attirato la vendetta degli israeliani apposta, come fecero una volta i musulmani di Sarajevo, sparando un colpo di mortaio sulla loro stessa gente per incassare lo sdegno del mondo? Domande che oggi non è possibile rivolgere a nessuno, qui intorno, senza passare per una spia, un infiltrato, uno sporco sionista.
«Andatevene», dicevano i volantini degli israeliani che annunciavano bassa pressione anche su Cana. «Ma dove? Con quali auto? E la benzina? E in che direzione? A dormire in un parco pubblico di Beirut, come cani rognosi?», ti urlano in faccia in una bottega vicina che sembra sia stata attraversata da una mandria imbizzarrita.
C’è un inspiegabile divario temporale, dicono a Gerusalemme, tra l’ora dell’attacco (fra la mezzanotte e l’una del mattino) e il crollo dell’edificio, venuto giù sette ore dopo. Ma questo è un dettaglio che non attenua lo sdegno, la collera che si propagano per tutto il Libano come un incendio nella savana, mentre le immagini fanno il giro del mondo e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunisce d’urgenza.
È una buona giornata, inshallah, per lo sceicco Nasrallah. L’Europa, il mondo islamico reagiscono inorriditi, mentre a Beirut un migliaio di dimostranti che sventolano la bandiera gialla di Hezbollah (su cui spicca un braccio che impugna un kalashnikov) assalta gli uffici dell’Onu, in pieno centro, spaccandone le vetrate e devastando tutto quel che trovano all’interno.
Cana. Ancora Cana. Come il 18 aprile di 10 anni fa, quando Israele lanciò l’operazione «Furore», e 102 persone morirono sotto le macerie della caserma che ospitava gli osservatori dell’Onu, colpita come sempre «per sbaglio». La storia, le ragioni degli uni e degli altri, le dinamiche militari, perfino gli «errori» sono gli stessi di allora. Una sorta di demenziale, infruttifera coazione a ripetere.
Condoleezza Rice non verrà a Beirut. Non sarebbe gradita, le fa sapere il premier Fuad Siniora, che ora elogia apertamente la resistenza di Hezbollah, accusa Israele di «terrorismo di Stato» e insiste per un cessate il fuoco immediato.

Chissà, magari fra un paio di settimane, fa sapere laconico da Gerusalemme, dopo aver porto sentite condoglianze ai parenti delle vittime (e in attesa dei prossimi, inevitabili morti) il premier Ehud Olmert.

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