Cultura e Spettacoli

BRECHT Con le donne un rapporto tutta scena

La vera autrice dell’«Opera da tre soldi» sarebbe Elisabeth Hauptmann, ma anche altri lavori celano un talento femminile

L’immagine che, nell’anno di grazia 1955, ce lo mostra stretto tra il serafico Paolo Grassi e uno Strehler dalla chioma lucida e laccata come quella di «Rudy» Valentino, ne ha fissato per sempre l’icona benevola e lievemente naïf di araldo della democrazia universale. Anche se Bertolt Brecht, chiamato affettuosamente BB da Julian Beck e Judith Malina quando la troupe del Living esportò trionfalmente in Europa la sua Antigone riveduta e scorretta secondo i parametri dell’anarchia al potere, non si riconosceva in quella stinta decalcomania. Fiero com’era della sua identità di simbolo vivente del marxismo, esemplato nella sua carica di onnipotente direttore del Berliner Ensemble dove i suoi testi canonici venivano presentati, chiosati e incensati come mai era accaduto a Shakespeare ai bei tempi del Globe o a Molière, accreditato giullare magnifico alla corte del Re Sole.
Nessuno, a quei tempi, osava pensare, dubitare o tantomeno scrivere una riga sospettosa sull’eccellenza programmatica, l’integrità morale e l’assoluta originalità inventiva di quell’omino divenuto, dall’oggi al domani, il santino del vangelo dei laici, che in Italia riceveva onori regali contrastato solo dalla Chiesa cattolica quando, nel ’63, il Galileo del Piccolo di Milano scosse le gerarchie e infiammò le coscienze ben più di quanto sia capitato di recente dopo la comparsa del Codice da Vinci. Brecht era un genio, un benefattore dell’umanità sofferente, un operaio della cultura che viveva modestamente arroccato nella sua Ddr accanto a un’attrice brutta e rispettata come ogni moglie che si conviene dopo aver rifiutato i fasti della nativa Augsburg e disprezzato i miliardi della macchina americana, interessata a tramutare il veemente j’accuse anticapitalista della sua Dreigroschenoper in un film con Dean Martin finanziato, orrore sommo, da quel mafioso di Frank Sinatra. Insomma, il papà dell’«effetto di straniamento» che, a teatro, incitava a non sciogliersi in lacrime davanti ad ogni tirata edificante ma a riflettere sull’arroganza del potere, fu per trent’anni il portabandiera di quel «comunismo dal volto umano» che, dopo le sue esequie l’11 agosto di cinquant’anni fa, fu elevato da ogni esponente della «cultura libertaria» a dignità ne varietur di semidio.
Ciò che lo rendeva intoccabile tutt’uno alla maschera dolente di Charlot contratto in una smorfia di raccapriccio ogni volta che, all’orizzonte, si profilava l’ombra nefasta del policeman, era il suo mitico passato di paladino degli oppressi. Si poteva inficiare del maleficio del dubbio l’uomo che, in patria, aveva contestato l’ascesa del famigerato Imbianchino? O colui che, per non sporcarsi le mani con la sordida politica inaugurata dopo l’incendio del Reichstag aveva peregrinato, più lacero e ramingo dell’Ebreo errante, tra la Svezia, la Finlandia e l’Unione Sovietica prima di raggiungere, nel ’41, quella Hollywood dove per sbarcare il lunario fu costretto a mettersi in fila davanti agli uffici dei tycoon per elemosinare un misero stipendio da sceneggiatore? No, che non si poteva. Tanto più se si scorrevano quei drammi giovanili, solo in apparenza scabri e disadorni come una tavola pitagorica, dove il suo linguaggio ancora immune dai condizionamenti di parte si piegava con strepitoso virtuosismo alla poesia esasperata e cupa dell’espressionismo. Con quel Baal, scritto a vent’anni nel ’18, che più che a un mostro biblico emerso dal marasma di un cataclisma glaciale faceva pensare a Donatien de Sade e a quei mirabili Tamburi nella notte (1920) dove gli echi della rivolta spartachista stingono sullo sfondo dell’apatia del protagonista che, crollati gli ideali libertari, aspira solo a rientrare «nel gran letto bianco» in cui lo attende un eros senza sogni.
Non è casuale infatti che, prima di coincidere anima e corpo col Diktat di un teatro epico svincolato dall’identificazione sentimentale con gli ideali del romanticismo, Brecht poneva senza accorgersene le fondamenta estetiche e stilistiche di quel grande scrittore che avrebbe potuto essere e non è stato. Dato che, paradossalmente, la spinta eversiva alla battaglia sociale lo portò da quel momento in poi non a creare opere autonome, originali nella concezione e negli addebiti col passato, ma a rifare il verso, accentuandone all’estremo l’aspetto grottesco, a testi e personaggi canonici della letteratura e della storia audacemente riciclati in funzione anticapitalista. È su questo limite, che per qualsiasi altro avrebbe rappresentato un handicap invalicabile, che Brecht costruisce con prodigiosa abilità dialettica una parabola che si attesta sul mito. Non si fa scrupolo di capovolgere motu proprio il grande romanzo di Hasek Il buon soldato Schweik snaturandolo e, a suo modo, potenziandolo nell’odissea di Schweyk nella seconda guerra mondiale. Per assalire frontalmente poi l’ambigua truffatrice Courage al centro dell’affresco storico di Grimmelshausen deturpandone per sempre i tratti nell’immagine al vetriolo di Madre Coraggio. La donna che non può né vuole estraniarsi dall’implacabile meccanismo della guerra che la riduce a una larva distruggendo una per una le sue creature.
Saccheggia da par suo i Dialoghi dei massimi sistemi del genio di Arcetri consegnandoci, in Vita di Galileo, il ritratto a tutto tondo di un uomo che, pur di esplorare i segreti del cosmo, non esita ad annullare nell’abiura l’etica cui ha ispirato la sua esistenza. Prende a prestito dall’Oriente la famosa leggenda della meretrice Shen-Te tramutando la vittima dell’aggressione maschile nel feroce Shui-Ta che incrementa l’universale legge della sopraffazione al centro dell’Anima buona del Sezuan. Ma soprattutto sfrutta, profittando del demoniaco potere di seduzione che esercita sul gentil sesso, tutte le femmine dell’élite intellettuale che gli capita di accostare.
Nasce così (anche se le sue malefatte verranno in luce solo nel ’94 nella scandalosa biografia di John Fuegi) la sua leggenda di moderno Barbablù. Che si appropriò del talento di Elisabeth Hauptmann, secondo alcuni la vera autrice dell’Opera da tre soldi, della condiscendenza di Ruth Berlau che gli avrebbe dettato pagine e pagine del Cerchio di gesso del Caucaso, della docilità di Margarete Steffin da lui precipitata nell’abisso della follia come della verve della finlandese Hella Wuolijoki che gli avrebbe suggerito le battute più taglienti del Puntila. Per non parlare della più illustre delle sue vittime, la straordinaria Marie-Luise Fleisser, autrice di un capolavoro come Purgatorio a Ingolstadt fortunosamente recuperato negli anni Settanta da un maestro come Fassbinder. Ipotesi che, se fino a ieri si limitavano ai sussurri, oggi prorompono da ogni parte come grida condizionando, ben più di qualunque discriminante ideologica, l’ascesa di Bertolt Brecht al Pantheon degli immortali. Di cui ci si appresta a celebrare un revival che, non c’è dubbio, culminerà nell’apoteosi.

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