È cambiato quasi tutto, evitiamo di parlare per concetti assoluti

È cambiato quasi tutto, evitiamo di parlare per concetti assoluti

Ricordo una frase dell'avvocato Giovanna Galeppini che mi accompagnò a La Spezia per presentare all'Istituto della Resistenza il libro Lettere d'amore e di guerra (dall'epistolario dei miei genitori, mille lettere dal 1934 al'45): «L'ambiente è tutto di sinistra? Ma la direttrice, che ti ha invitata, è persona intelligente? Se sì come dici, non c'è problema». Scoppiò bagarre in quella sede. A difendermi, in quanto capiva la mia posizione di figlia (lui avendo letto lettere dei suoi genitori nella I Guerra mondiale), fu il precedente presidente dell'Istituto, un senatore comunista, di 85 anni, Giuseppe Fasoli che si avanzò dal fondo della sala come il paladino Orlando, pur se si appoggiava al bastone. Pregò l'amico Carrozzi, ingegnere ed accademico che era insorto, di moderare i toni. Poi, come risarcimento, fui invitata a parlare di «Foibe» al Centro Allende, ma declinai dato che ritenevo altri più titolati di me a dire al riguardo, pur se vissi anch'io l'esodo dei giuliano-dalmati. Dall'italianissima Trieste, però, dove nel '48 scendevano gli slavi a tirare pietre alle finestre della nostra casa di periferia, vicino al Boschetto, quando il 4 novembre papà esponeva il Tricolore. Di Mascetti ricordo una bella lettera al Giornale, il 15 gennaio 2010 (la conservo) dove racconta che nel 1974 all'Università di Lettere a Genova tra gli insegnanti c'era il brigatista Fenzi e Faina teneva un corso sulla banda Baader Meinhof. Questa premessa perché noi italiani siamo sempre guelfi e ghibellini e il D'Oria, almeno il mio, è stato scuola di liberalità.
Non ero contenta del mio articolo sul D'Oria (20 marzo) perché non razionale. Dovevo citare, a fondo articolo, non la frase sull'educazione impartita attraverso Orazio e Virgilio, attraverso Mazzini, ma dire esplicitamente che il patrimonio del D'Oria (di ogni Liceo classico) è questa educazione privilegiata attraverso i classici, che non ha a che fare con la fama di «figli di papà»: il nostro primo della classe (pari merito con me) era orfano di guerra, con una madre gran lavoratrice. Quando aveva trovato il biglietto d'ammonimento a suo padre, che in fabbrica non aveva voluto presenziare ad una visita del Duce, da quel momento era andato all'inaugurazione di ogni lapide partigiana in Liguria. Il mio Liceo non conteneva neanche l'idea di «ragazze da marito». Qualche anno fa per un articolo su un Convegno per «La donna che lavora», cui presenziava il cardinale Bertone, (Palazzo delle Finanze in via Fiume), sentii due giovani oratrici lamentarsi dei mariti che non cambiavano il pannolino al figlio. Il Cardinale ricordò (modo gentile di riprenderle) sua madre, in tempo di guerra, con tanti figli piccoli e i tedeschi che doveva ospitare in casa. Non mi è andato in quel mio articolo di ricordare il mio unico anno d'insegnamento, anno 1972/73, dove fui la terza a ricevere la qualifica di ottimo dal Preside Malco, che fino ad allora l'aveva data solo alla prof. Croce e al prof. Garbato. Anche lo «storico» bidello si complimentò perché da tempo non vedeva tanti alunni in Biblioteca come i miei.
Vorrei trarre dai miei documenti (lettere soprattutto) alcuni ricordi sui professori del tempo, ma sono 50 anni fa. Vittorio Soave (latino e greco) da Malco era chiamato l’«akribès», «l'intatto», perché con lui non si poteva perorare la causa di un allievo al di fuori del merito reale.
Di Durand invito il lettore a cercare il saggio che gli dedica Stefano Verdino su «A Compagna» del maggio-agosto 1990: «L'attività critica e poetica di Ferdinando Durand». Un professore, al di là delle convinzioni personali, non deve forse esser preparato ad insegnare bene le sue materie? Sua una poesia per Gina De Benedetti, mia insegnante al ginnasio. Durand, non cattolico, scrive per lei «Donna Ebrea»: «O nuda tristezza/ dei fondi occhi pensosi!/ In loro permane il dolore/ la stanchezza la forza l'orgoglio/ della tua stirpe/ che diede al mondo il Dio uno./ E leggo nel tuo viso/ i milioni di morti/ che pesano sul cuore./ Insieme con quello di Cristo/ il vostro sangue si sparse». Sempre per Gina, Liana Millu che le era amica e che conobbi da Lei, in morte (nell'89) disse versi di Hanna Senesh, di Budapest, paracadutata in Yugoslavia dall'Organizzazione Ebraica di autodifesa per organizzare la Resistenza ebraica e giustiziata. Nel giubbotto trovarono questi versi: «Beato il fiammifero che si consumò accendendo/ dei fuochi/ Beata la fiamma che arde nel profondo/ dei cuori. Beati i cuori che seppero spezzarsi con onore./ Beato il fiammifero che si consumò /accendendo dei fuochi».
Sempre per Gina da una lettera di Miriam Pietrasanta Bossi sua allieva nel 1934/35 (oggi avrebbe 88 anni, ma ne ho perso le tracce): «Gina, che è la persona più simile a Dio che io abbia conosciuta personalmente, sapeva farsi tutta a ciascuno, preferendo i più bisognosi e giudicando in base all'amore che era capace di dare: la sua vera misura». Ricordo, al Liceo, Piero Raimondi che ci portava ciclostilati testi dei poeti moderni mancanti dalle antologie. Ricordo la Franchi che mi faceva rispiegare subito dopo la sua spiegazione e mi dava il voto come su un'interrogazione. Quindi non superavo il 7, anche se alla maturità ebbi 8 di fisica e 8 di matematica. Un giorno mi diede «zero» perché avevo fatto copiare il compito in classe. Ero in primo banco e Lei poi spiegava con la mano quasi a sfiorare il «Topolino» che avevo tirato fuori per protesta: così per tre giorni senza mandarmi dal Preside. Santa donna! A scuola s'impara anche quando si prendono facciate, anzi è il momento che innesca l'autocritica e poi l'autoironia.
Alle medie al Doria (scritto così, perché a personaggi diversi sono le dediche delle due scuole, Medie e Liceo) ebbi un'insegnante di educazione artistica che voleva i miei genitori m'iscrivessero a quell'indirizzo. Non vollero e come risarcimento fui inviata d'estate da Alberto Helios Gagliardo. A Giannino Fieschi - come a me - disse che aveva talento segnando la sua strada d'artista. Mentre capii allora che la pittura richiedeva una dedizione così monacale che non sentivo. Per me il mondo è nelle parole scritte. Però, per educazione di quel Maestro, mi sono abituata a cercare in ogni cosa il punto-luce, la priorità su tutte le luci: nel quadro come nella vita.
Conservo anche una bellissima lettera di Marguerite Krausaz Gennaro, insegnante di francese per me e per mio fratello al sabato pomeriggio alla Berlitz School. Fu in quei pomeriggi che scoprimmo nel suo libro una sua missiva per Emanuele Gennaro, poi suo marito per 35 anni. Ricordo come mio fratello si rialzasse il bavero della giacca per non essere riconosciuto - Gennaro era già suo professore al Liceo, un giorno uscendo da lezione e lui era sul marciapiede ad aspettarla. Mi scrive Marguerite in morte del marito nel 1990: «Ricorda che la Vostra, la nostra lezione, si svolgeva di sabato, dalle 15 alle 16? Me lo dice Lei dove sono oggi i giovani che andrebbero a lezione di sabato pomeriggio e quale giovane insegnante vorrebbe “sacrificare” il sabato pomeriggio?... Il Professore che mi aspettava dopo la lezione? Ebbene sì, era molto fiero di me e geloso. Ogni volta che poteva mi accompagnava o mi veniva a prendere».
Anche questa è educazione: del cuore, dei sentimenti, oltre a quelle pagine dei nostri classici, che fanno la differenza.

L'insegnamento del D'Oria a me ha permesso di frequentare l'Università e poi ben due scuole di specializzazione (in Spettacolo e Giornalismo) alla Cattolica di Milano: benché madre con tre figli è stata quasi una passeggiata.
Caro D'Oria, grazie di tutto, anche quando ho pianto!

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