Camoranesi: «Volevo restare in Europa ma al Lanus mi sento a casa»

Certi allenatori italiani sentono il calcio come una guerra, per me e per altri mister è solamente un gioco»

Il calcio italiano non lo ha mai amato. Forse per quel suo carattere schivo, per la voglia di essere sempre diretto, poco diplomatico come lo sono il 99 per cento dei calciatori di ca nostra. Ora qualcuno lo rimpiangerà, anche se lui sta bene a casa. «Cosa mi ha convinto del Lanus? È stato il primo club argentino a interessarsi a me». Sono passati 16 anni da quando Mauro Camoranesi ha lasciato l'Argentina per tentare la fortuna nel calcio messicano. Nessuno immaginava che molti anni dopo sarebbe tornato a casa da campione del mondo, una medaglia conquistata sventolando la bandiera della nazionale italiana. Sedici anni duranti i quali Camoranesi ha vestito la maglia di Santos Laguna, Montevideo Wanderers, Banfield, Cruz Azul, Verona, Juventus, Stoccarda.
Finalmente, il 2 febbraio scorso, il ritorno in patria con il Lanus, club dell'omonima città argentina. «È una società dallo spirito positivo e dal funzionamento semplice - dichiara il centrocampista al sito della Fifa. In termini sportivi, è una squadra competitiva impostasi negli ultimi anni nei primi posti del campionato argentino. Non ha impiegato molto per convincermi». Lo scorso anno il giocatore aveva deciso di lasciare l'Italia e di trasferirsi in Germania: «Volevo stare in un club europeo. Mi esaltava l'idea di giocare in una squadra come lo Stoccarda. Dopo così tanti anni in Italia volevo cambiare scenario e tentare una nuova sfida. Non sono rimasto molto tempo, ma ero davvero entusiasta di andare lì. Non intendevo tornare nel mio paese, ma mi è capitata questa opportunità e l'ho colta».
«La migliore squadra per cui abbia mai giocato è stata la Juventus del 2006, avevamo ben 10 dei 30 giocatori più forti al mondo», ha ricordato il giocatore. «Una cosa del genere capita ogni vent'anni, perchè è molto difficile trovare una così buona generazione di calciatori che giocano tutti nella stessa squadra. Dei 15 giocatori della prima squadra, 11 erano i capitani delle loro nazionali. Sfortunatamente, non siamo stati capaci di sfruttare il vantaggio sul piano europeo».
La nostalgia per l'Italia, però, ogni tanto si fa sentire: «L'Italia mi manca, a volte sento l'urgenza di tornarci. Ho una casa lì ed è dove ho trascorso molti anni della mia vita. In questi primi pochi mesi in Argentina sto sperimentano così tante cose, che non sto sentendo molto la mancanza dell'Italia. Ma è ovvio che abbia dei momenti in cui ho nostalgia della mia casa, dei miei amici e di alcune abitudini. A volte provo questa sensazione», ha confessato. Camoranesi parla anche del suo ultimo saluto alla società torinese: «Ho vissuto male la mia partenza dalla Juve. Sono molto grato al club e non avrei mai voluto creare polemiche. Non me ne sono andato in un bel modo e lo stesso è accaduto anche ad alcuni dei miei compagni. Tutto ciò è strano, mi ha lasciato l'amaro in bocca, non abbiamo ricevuto molto supporto dal club».
«La prima cosa che mi viene in mente se penso a quella finale del 2006? Sono stato sostituito un attimo prima della fine dei tempi regolamentari e l'ansia mi stava lacerando dentro. Il mio primo ricordo - ha confessato Camoranesi - sono i trenta minuti che ho trascorso seduto in panchina, in attesa del nostro destino.
La crudeltà del calcio è anche vedere un giocatore del calibro di Zinedine Zidane lasciare il terreno di gioco e passare accanto al trofeo, dopo un cartellino rosso. «Certamente, questa è la prima immagine che resta della Coppa del Mondo. Personalmente, in veste di calciatore, ho provato compassione per lui. Era un grande giocatore, il migliore in giro in quel momento, e aveva dato prova di essere ancora il migliore di quel Mondiale», ha spiegato. «Se fosse rimasto in campo fino alla fine, tutto avrebbe potuto essere diverso, no? Il suo comportamento è stato vergognoso, ma la vergogna non può cancellarne la grandezza».
Camoranesi è stato a lungo compagno di squadra dell'altro protagonista di quel triste episodio, Marco Materazzi: «Marco è un bravo ragazzo! Io credo che noi quando entriamo in campo interpretiamo un personaggio, ma questo personaggio non ha molto a che vedere con la persona che siamo nella vita di tutti i giorni. Alcune persone non sono d'accordo - ha precisato - ma io penso che sul campo qualche volta sul campo vedi un lato di te stesso che non vedresti da nessun'altra parte».
Diversa l'Italia che si è vista agli ultimi Mondiali: «Cosa è andato male in Sudafrica? È stato un triste Mondiale per noi, strano. Molti di noi erano più vecchi di quattro anni rispetto al 2006 e si trascinavano dei problemi. E insieme a quelli che erano lì anche quattro anni prima, c'erano giocatori giovani e senza esperienza. Alcuni - ha continuato - avevano giocato soltanto una decina di match internazionali, è poco per una Coppa del Mondo. E poi non siamo riusciti a imporre il nostro gioco. Ma sappiamo di non poter incolpare nessuno, se non noi stessi».
Materazzi parla di calcio con troppa passione per pensarlo fuori dall'ambiente. «Onestamente, se dovessi smettere di giocare e non dovessi restare legato al mondo del calcio, uscirei pazzo! Per lo meno è quello che provo adesso: al momento la mia testa è concentrata su ciò che accade in campo. E quando parli di un futuro nel calcio dopo il ritiro, l'unico ruolo che ti resta è quello dell'allenatore. Gli altri ruoli sono amministrativi o in uffici, ma per me non è calcio».
Ci si chiede che tipo di allenatore potrebbe essere: «Ho preso del positivo dagli allenatori che ho avuto. Li rispetto tutti, anche se ciascuno ha le sue idee.

Ce ne sono due o tre con cui ho davvero avuto piacere di lavorare, specialmente per il modo in cui intendevano il gioco. Alcuni allenatori trattavano il calcio come se fosse guerra, altri come se fosse semplicemente un gioco in cui devi fare meglio dei tuoi avversari. E per me è così: è un gioco».

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