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Capello, che impresa a Madrid Don Fabio è ancora Re di Spagna

Real Madrid sotto di un gol fino alla mezz'ora del secondo tempo. Salvato dalle reti di Reyes e Diarra in 15’. Capello festeggia nel giorno del compleanno e attacca l'Inter

Capello, che impresa a Madrid 
Don Fabio è ancora Re di Spagna

Madrid - Così, forse, è anche più bello. Con una rincorsa a perdifiato lungo i tornanti di una sfida, l’ultima del torneo, contro il Maiorca, mai comoda e anzi drammatica per certi snodi. 0 a 1 all’intervallo, grazie alla stilettata di Varela mentre il Barcellona passeggia sul Gymnastic, a Tarragona (5-1 finale, gol di Puyol, Messi 2, Ronaldinho e Zambrotta), fuori per infortunio muscolare Van Nistelrooy: il Real Madrid e Capello vedono le streghe prima di garantirsi una ripresa al cardiopalmo e una rimonta epica. Dalla panchina arrivano i rinforzi e la svolta tattica: fuori Emerson e Beckham, Higuain e Reyes, Guti mettono a ferro e fuoco la metà campo del Maiorca, costretto alla resa dopo aver sfiorato la storica impresa. Così è più bello. Capello, impassibile, è uno dei pochi a non perdere mai la fede nei suoi e anche nella forza di una squadra capace di ribaltare, puntualmente, nella ripresa, i risultati. La sequenza è di quelle che fulminano i rivali: in 15 minuti i tre gol restituiscono all’evento i contorni più attesi e scontati. Onore al Maiorca, ma il Real è campione di Spagna, ora sono 30 i titoli collezionati. E alla fine Capello si sfoga e attacca l’Inter: «Io sul campo ho vinto nove scudetti regolarmente. Se hanno messo uno che si chiama Rossi e che ha deciso in un’altra maniera, a me interessa poco. Voglio proprio togliermi una spina dal piede».

Come il Milan, don Fabio Capello s’è ritagliato lo stesso sfizioso destino: dopo essere precipitato nella polvere è salito agli altari. L’han dato per morto, vinto, sconfitto, battuto dalla presunzione e dall’arroganza, e invece è risorto e, come raccontano i sacri testi, con la remissione di tutti i suoi peccati. Giusto in tempo per consegnare nelle mani di Ramon Calderon, il presidente dilettante, lo scudetto numero 30 della storia leggendaria del Real Madrid. Da quattro anni erano all’asciutto: l’ultima volta, estate del 2003, furono i baffi celebri di Del Bosque a esultare su quella panchina pericolosa come un vulcano in attività.

Qui a Madrid, dopo averlo invocato l’estate scorsa, l’hanno maltrattato e irriso, a dimostrazione che tutto il calcio è paese. Il giornale più diffuso tra il tifo merengues, Marca, l’ha sbertucciato creando anche un cartone animato col mascellone pronunciato. Lui, malmostoso, si è chiuso in un silenzio polemico. In privato ha raccontato di tutto, delle gaffe di Calderon, e delle cattive abitudini del vecchio Real targato Fiorentino Perez, nel quale lavorò anche Arrigo Sacchi. Tra i due non c’è mai stata una gran simpatia. Quando l’ex Ct criticò severamente il calcio del Real, don Fabio sbottò: «E lui cosa ha fatto qui in Spagna?». Adesso può esibire i suoi scudetti collezionati, tra Italia e Spagna. Sul numero è aperto un dibattito che non ha molto senso: sono 7 più 2 sostengono i critici meno feroci, ricordando i due titoli con la Juve cancellati dalla giustizia sportiva. Sette reali o nove virtuali, poco conta, si tratta di numeri stratosferici. Nelle corse a tappa è un mostro, don Fabio; nelle classiche un perdente di successo. Solo col Milan ha raggiunto 3 finali di Coppa Campioni (1 vinta, 2 perse). Con Roma e Juventus s’è fatto puntualmente respingere tra ottavi e quarti. Mai è tornato a casa dal Giappone con la coppa Intercontinentale.

Capello II, re di Spagna, ha provato a Madrid una rifondazione costosissima tornata utile solo nelle ultime settimane, ha commesso clamorosi errori di valutazione (Beckham) ma ha avuto, per una volta, il merito di correggersi. L’inglese è stato decisivo nel risalire il distacco dal Barcellona giunto fino a otto lunghezze: lui liftava palloni, Van Nistelrooy li infilava nelle reti nemiche. Non era mai successo che don Fabio vincesse in rimonta, specializzato nel prendere subito il largo senza farsi mai raggiungere. Ha provato anche questa emozione all’alba dei suoi 61 anni. Si è portato dietro Cannavaro ed Emerson: ha difeso coi denti il primo, colpito dalla sindrome del dopo-mondiale, ha messo da parte il secondo, il cui rendimento è risultato condizionato da una fastidiosa pubalgia. «Quando entra lui negli spogliatoi regna il silenzio» ha rivelato Raul. È stato un precettore inflessibile con Antonio Cassano, ingeneroso con Ronaldo soffiando a Silvio Berlusconi, durante una conversazione telefonica, una stroncatura: «È finito». Si è rifatto il credito offeso dalle “pagnolada” (fazzoletti bianchi sventolati in segno di spregio) con i rinforzi di gennaio, Gago e Higuain, suggeriti dal suo consulente di mercato Franco Baldini. Insieme hanno lavorato alla Roma dove vinsero lo scudetto una domenica di metà giugno, il giorno 17, guarda caso.

Non l’hanno ancora confermato. Nei giorni difficili, il suo presidente, Calderon, contattò Schuster. Dovessero lasciarlo a casa, potrà consolarsi con lo stipendio da 5 milioni netti l’anno. Alla fine il giallo Cannavaro con la bandiera italiana col fascio littorio è subito chiarito dal giocatore: «Me l’hanno lanciata i tifosi, io l’ho sventolata e quando ho visto che c’era il fascio l’ho richiusa annodandomela al collo.

Mi scuso con tutti, io non sono fascista, non sono di sinistra, non l’ho fatto apposta».

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