Giampietro Berti *
La crisi finanziaria che investe in modo globale l’assetto del capitalismo ha provocato negli ultimi mesi un ritorno della fortuna di Marx. Ciò non a caso, dato che il teorico del comunismo ha più di tutti profetizzato la fine della società capitalistico-borghese. Si viene a sapere, a esempio, che nelle Università tedesche i corsi sul pensatore di Treviri si sono triplicati e che nelle librerie Il Capitale è ritornato a essere ampiamente richiesto. E recentemente il professor Luciano Canfora, sulla Stampa, ha rivendicato, in qualche misura l’attualità di Marx.
Diciamo subito, per quanto ci riguarda, che si tratta di un’attualità effimera perché sono centocinquant’anni che il capitalismo vive di crisi. Su Marx e il marxismo la letteratura è sterminata ed è quindi inutile aggiungere osservazioni tendenti a illuminare o a scoprire alcunché, perché tutto ciò che sappiamo è sufficiente per sapere tutto ciò che dobbiamo sapere. E ciò che dobbiamo sapere si riduce a questo: che tutte le previsioni-teorie di Marx e tutte le previsioni-teorie elaborate successivamente dai suoi epigoni sono state inequivocabilmente smentite dalla storia. In modo particolare, il fallimento riguarda quelle previsioni e quelle teorie decisive per la vittoria del comunismo e la sconfitta del capitalismo, dato che nessuno mette in dubbio l’importanza enorme, per la cultura contemporanea, di alcune acquisizioni filosofiche e sociologiche del marxismo.
Acquisizioni culturali importanti, ma ininfluenti per la riuscita di una società comunista: il marxismo non si era prefisso di disputare sul sesso degli angeli, ma di cambiare il corso della storia, di trasformare il mondo. È avvenuto invece esattamente il contrario di quanto era stato profetizzato da Marx e dai marxisti, perché non vi è stata la caduta del capitalismo e l’avvento del comunismo, ma la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo. Il fallimento scientifico del marxismo è dovuto al fatto che esso è una gnosi travestita da scienza. Cioè il marxismo non è una scienza, ma una pseudoscienza.
Il fascino enorme della sua dottrina, la spiegazione del suo incredibile successo presso buona parte dei ceti intellettuali radicali di tutto il mondo - ciò vale sia per gli ultimi decenni dell’Ottocento, sia per quasi tutto il Novecento - deriva proprio da questo suo carattere ambivalente: si presenta come una scienza, ma mantiene intatta la forza evocativa del profetismo. È un caso, molto riuscito, di unione sincretica fra Logos e Mythos, dove però il Logos non è pensiero scientifico, ma solo strumentale razionalizzazione del Mythos. In questo senso la sua fortuna ci fa toccare con mano il carattere contraddittorio e problematico della modernità, vale a dire di un’età dove la mistificazione ideologica trova la sua più alta verità, il suo ubi consistam.
È molto probabile che fra qualche decennio gli storici delle idee identificheranno nel marxismo la nuova scolastica, ovvero la strutturazione «discorsiva» del maggiore imbroglio ideologico affermatosi tra Otto e Novecento. Dove si svela, in modo inequivocabile, l’inconsistenza scientifica del marxismo e il suo carattere mistificante? Si svela nel centro profondo della sua identità teoretico-metodologica: la dialettica. Nell’universo labirintico della dialettica è possibile individuare in che modo il marxismo sia una gnosi travestita da scienza, cioè perché non sia una scienza, ma, appunto, una pseudoscienza. La dialettica, concepita e interpretata sotto la forma del materialismo dialettico e sotto la forma del materialismo storico, consiste nell’auto-intendersi come un sapere in grado di spiegare tutta la realtà, in quanto metodo di pensiero internamente dotato di una logica capace di inglobare in sé l’intero esistere e le continue insorgenze prodotte dal suo stesso svolgimento.
Si tratta di una pretesa enorme, anzi, a dir meglio, smisurata. Si può parlare infatti di un carattere soteriologico, addirittura salvifico, per cui giustamente Jacques Monod l’ha definita una «proiezione animistica». Ma, a dire il vero, già un secolo fa questa sua peculiarità era stata vista, con straordinaria lucidità e chiarezza, dai grandi teorici dell’anarchismo, soprattutto Kropotkin. La dimensione totalitaria intrinseca alla logica dialettica si rivela nella natura stessa del suo metodo, cioè nell’idea che sia possibile dar conto di tutto l’esistente, con l’inevitabile conseguenza che la spiegazione diventa, al contempo, norma, dato che tutti i giudizi di fatto, propri all’analisi, si risolvono in giudizi di valore, propri della prescrizione: la dialettica, infatti, non ci parla solo dell’essere, ma anche del dover essere. La sovrapposizione fra l’essere e il dover essere è generata dall’imbroglio epistemologico dovuto a questa coincidenza, dato che essa permette il passaggio dalla descrizione alla prescrizione senza mai pagare il prezzo di una verifica o, come avrebbe detto, Popper, della sua «falsificabilità».
Di qui il sincretismo metodologico fra essere e dover essere, quella sovrapposizione concettuale che aprirà la strada non solo a tutti gli errori teorici del marxismo, ma anche a tutti gli orrori pratici del comunismo, essendo, questi, l’effetto di quelli. Questa sovrapposizione, infatti, non solo ci dice che cosa è l’uomo, ma anche che cosa deve fare l’uomo. È dunque dalla radice totalitaria della dialettica e dal suo irrimediabile cognitivismo etico che si sviluppa l’intrinseca natura anti-individualistica del comunismo e il suo conseguente totalitarismo. La storia del comunismo, come egemonia esercitata dal marxismo su quasi tutta la sinistra mondiale durante il Ventesimo secolo, dà testimonianza di tutto questo. Se si analizzano i momenti decisivi della storia del movimento operaio e socialista, constatiamo una serie ininterrotta di eventi mancati che testimoniano il venir meno di tutte le previsioni teoriche del marxismo stesso. Ciò spiega perché, nel corso di un secolo, i suoi epigoni hanno detto tutto e il contrario di tutto. Il fallimento pratico di tutte le previsioni teoriche del marxismo ha avuto il suo punto decisivo nell’errata ipotesi della caduta del saggio di profitto che ha generato, a sua volta, l’errato e visionario scontro finale tra proletariato e borghesia.
Questo determinismo è stato spacciato per decenni dai marxisti come l’elemento forte della scientificità della dottrina, scientificità proclamata per primo da Marx, secondo cui l’avvento del socialismo si sarebbe dato «con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura». Il golpe della rivoluzione d’ottobre è la conferma invece del fallimento scientifico del marxismo. La rivoluzione d’ottobre, infatti, non fu una rivoluzione di popolo, ma l’esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito. Se le previsioni di Marx si fossero avverate, la rivoluzione avrebbe dovuto scoppiare a Londra, non a Pietrogrado, per cui si può dire senz’altro che l’intervento attivo del volontarismo comunista quale azione di soccorso e di sostegno alle mancate previsioni marxiano-marxiste è la dimostrazione più evidente dell’insussistenza della teoria. L’infondatezza scientifica della concezione dialettica ha generato la catastrofe delle sue previsioni, con la conseguenza che il crollo del capitalismo e l’avvento della rivoluzione proletaria non si sono configurate come l’esito certo, spontaneo dello sviluppo storico, ma come il prodotto forzato di una specifica decisione, quella, appunto, di imporre una volontà laddove la storia ha dato torto all’infondatezza delle aspettative. È questo il vero nesso su cui si è fondato per cinquant’anni il rapporto dialettico fra marxismo e leninismo, rapporto che ha dato luogo alla dottrina catechistica denominata marxismo-leninismo: dove non si arriva con la teoria (e non si arriva mai), si arriva con la pratica.
L’intera analisi marxiana del capitalismo non modifica minimamente l’univocità della significazione golpista del comunismo. Vale a dire che la previsione marxiana, per la quale la rivoluzione socialista si sarebbe dovuta affermare nei Paesi ad alto sviluppo industriale, non solo ha dimostrato l’erroneità dei suoi assunti, ma ha anche reso evidente che essa non poteva che realizzarsi in quel modo, anzi che essa si è realizzata proprio a causa dell’arretratezza. Per cui le successive misure dittatoriali attuate dai dirigenti comunisti per piegare la realtà alle proprie aspettative vanno considerate non come fatti straordinari, ma come la logica conseguenza dell’insufficienza scientifica della dottrina: non c’è spazio per un discorso che prescinda dalla contingenza storica nella quale in quel momento è stato posto l’esperimento della «società senza classi». Lenin e il bolscevismo esprimono la corrente volontaristico-soggettiva del marxismo, che pone la decisione politica come elemento determinante per il superamento dell’arretratezza storica del tutto avversa alle teorizzazioni marxiane. Però il soggettivismo leninista rimane sempre all’interno della concezione deterministica, secondo cui la storia è destinata comunque a sfociare nel comunismo: il compito del partito dei rivoluzionari di professione, quindi, è solo quello di accelerarne la marcia, forzandone il percorso. In conclusione, la catastrofe del comunismo non è dovuta all’errata attuazione empirica dei suoi princìpi, ma, al contrario, alla loro più esatta e univoca osservanza, la quale si dà in concreto non come vorrebbero i suoi sprovveduti fedeli, ovvero secondo fantastiche e impossibili applicazioni pratiche, ma solo come realmente può darsi.
Marx è stato clamorosamente smentito dai fatti perché non vi è stata alcuna proletarizzazione crescente nelle società capitalistiche e, tanto meno, nessuno scontro finale tra la società impoverita dal capitalismo e il potere economico ridotto in poche mani.
Nei Paesi capitalisti avanzati - Europa occidentale e Stati Uniti d’America - la rivoluzione sociale, quale esito della proletarizzazione generale, è rimasta un sogno senza alcuna prospettiva pratica. E tale è destinato a rimanere.* professore di Storia dei movimenti e dei partiti politici dell'Università di Padova
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