Il cardinale-sindaco da Fincantieri al futuro di Genova

Il cardinale-sindaco da Fincantieri al futuro di Genova

(...) A partire dai riferimenti alla vicenda Fincantieri, che al cardinale interessa moltissimo e per cui sta provando ad attivarsi in ogni modo. Ma sapendo che il lavoro in cantiere non si tutela dicendo che a Sestri vanno costruite navi e nient’altro che navi, né bloccando l’ultima nave in cantiere, rischiando di bloccare per sempre anche solo l’ipotesi che un armatore possa pensare di assegnare una commessa al cantiere di via Soliman.
Bagnasco, invece. «L’importante è salvare il lavoro nelle modalità che si riescono ad individuare. Certamente questo presidio deve assolutamente essere reso vivo, innovato, e posso anche dire che l’attenzione concreta, fattiva, da parte di tutti, è continua». E così Fincantieri diventa, come nella nostra lettura di questi mesi, la perfetta metafora, cartina di tornasole per leggere Genova: «Rispetto alle modalità del lavoro, all’innovazione, alla progettazione, ci vuole un cambiamento di mentalità. Ormai, questo è evidente da tutte le parti, non solo a Genova».
Ne consegue, subito dopo, il fatto che non ci si può cullare sugli allori, continuare a dirsi quanto è stata bella, brava e buona Genova nel passato. Quanto fosse Superba. Quanto abbia comandato ed innovato, non solo in Italia, ma nel mondo: «Non si può rimanere a guardare pensando ad una storia che è gloriosa, certamente, che non termina di essere ricca di potenzialità e professionalità, ma che nello stesso tempo ha bisogno assolutamente di trovare strade nuove». Quanta chiarezza in queste parole! Quanta capacità, ovviamente con il linguaggio felpato della Chiesa, di affrontare i problemi direttamente e senza nascondersi! Quanta diversità da tanta (brutta) politica!
E anche il corollario immediatamente successivo presuppone un approccio riformista al mondo del lavoro, degno di un Maurizio Sacconi o di un Pietro Ichino, giusto per parlare di due politici di schieramenti contrapposti alle elezioni, che però segnano la differenza: «Mi appello al mondo del lavoro affinché capisca quello che è evidente da tutte le parti e cioè che è tempo di cambiare mentalità e di puntare su strade nuove. Ci vuole un cambiamento di mentalità rispetto alle modalità del lavoro, all’innovazione, alla progettazione».
Ma mi dite chi dice queste cose nella Genova politica, del maniman, della difesa di corporazioni e orticelli, della paura di muovere una foglia perché magari il custode dell’albero si adonta? Senza peraltro considerare che a quell’albero rischia di finirci impiccato. Bagnasco, invece, queste cose le dice, forti e chiare. Bagnasco, che è quello della epocale prolusione introduttiva del convegno di Todi, non quello delle conclusioni appiccicate lì e politiciste.
Ribadisco, stiamo affrontando il Bagnasco laico, il cardinale che riesce ad essere il principale pensatore genovese anche per coloro che non sono credenti. Ma, ovviamente, nei discorsi e negli interventi ci sono anche aspetti più propriamente religiosi, interpretabili però anch’essi in chiave civile e sociale e non solamente cristiana. Ad esempio, «il nostro caro Angelo» è quasi pasoliniano nel suo richiamo ai valori della nostra giovinezza, che si perdono quotidianamente e che spesso anche la Chiesa perde di vista: «Abbiamo bisogno di purificare lo sguardo da illusioni menzognere, da sogni di vita facile e lussuosa, da invidie corrosive, da ingordigie devastanti, da furbizie egoiste». Parole che fanno il paio con l’invito a guardare alla famiglia come prima fonte di serenità: «Perché se non c’è il nucleo familiare che assicura quella rete di rapporti, sicurezza, fiducia, proprio come la zattera che ciascuno desidera, è difficile poi affrontare qualunque onda. Se invece la famiglia è coesa nel suo interno, se gli affetti sono sicuri e belli, anche le onde più difficili si possono affrontare».
Parole bellissime e desuete, massacrate quotidianamente da altri valori, fuori moda ed elegantissime nella speranza di un futuro diverso. Personale e per la città. Idee che paiono stravaganti a chi è abituato ad un altro sistema di valori, ma che le parole del cardinale elevano a potenza, insieme all’elogio di umiltà e semplicità «che non sembrano virtù di moda, ma danno peso e sostanza alla vita. Invece, l’umiltà è considerata timidezza o paura di misurarsi, viene ritenuta a volte l’atteggiamento dei vili, mentre la semplicità sembra sinonimo di poca intelligenza, di animo insipiente, tanto che pare che gli umili e i semplici siano perdenti perché poco attrezzati nella lotta della vita». Parole quasi vintage, parole d’altri tempi, contro una concezione quasi darwiniana della società, ma parole che ci riconciliano con la capacità di essere intellettuali. Persino a Genova.
E quasi non c’è soluzione di continuità fra parole cattoliche e precetti laici, anche nel racconto della crisi. Che il cardinale racconta senza nascondersi e nasconderci nulla: «L’ora che stiamo vivendo è seria, le ombre non sono poche, anche se le luci non mancano, il turbamento è diffuso. Ma non dobbiamo mai perdere la fiducia, perché vivere sfiduciati, significa arrendersi alle circostanze e restare passivi».
Ecco, proprio questo passaggio, questa ribellione a un mondo dove, spesso, gli unici che hanno ancora una speranza sono chiamati «disperati» dagli altri che non la colgono, è il nostro futuro.
Il futuro cristiano del cardinale, certo. Ma anche - e qui non facciamo religione, non è questa la sede - il futuro civile della nostra città. Io credo che, ieri, chiunque abbia alzato gli occhi al cielo sopra Genova in qualsiasi metro del lungomare, con quell’azzurro accecante e quel sole caldissimo di dicembre, abbia capito che per la nostra città e per la nostra regione un futuro c’è. Basta non pretendere che sia identico al passato.


Ecco, tutte queste cose mi piacerebbe che le dicessero i vari candidati sindaco di Genova che, come ho detto spesso, vorrei vedessero la città con gli occhi di un bambino. Nell’attesa, le ha dette il cardinale. Peccato non possa candidarsi.

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