Cari sudditi, lo Stato è lo Stato e voi siete nulla

Talvolta si dimentica che le questioni di libertà sono più importanti di quelle puramente tecniche

Cari sudditi, lo Stato è lo Stato e voi siete nulla

Lo abbiamo forse scritto nella prima uscita di questa rubrichetta: il pensiero liberale è talmente indaffarato a combattere (e fa bene) l'oppressione fiscale, che talvolta si dimentica che le questioni di libertà (senza aggettivi) sono più importanti di quelle puramente tecniche. Questa settimana vorrei proporre la lettura di un testo niente male dell'Istituto Bruno Leoni (edito nel 2012). Si chiama Sudditi, ha un sottotitolo modesto: «Un programma per i prossimi 50 anni», una copertina blu e una bella prefazione di Nicola Rossi, ieri parlamentare della sinistra, oggi liberale (succede). Il libro è interessante poiché il suo filo conduttore è quello della sudditanza. Attraverso una serie di interventi (divisi in capitoli) di vari esperti (a parte un certo gestore del fondo dell'Oman, chiamato Scacciavillani, che è liberale solo quando gli fa comodo) si tratta per lo più di interventi davvero azzeccati. Non solo fisco, che comunque ha un peso come è normale, ma soprattutto il senso del rapporto tra cittadini e governanti. «La condizione di minorità degli italiani rispetto allo Stato - scrive Rossi - non si esaurisce ai soli aspetti di carattere fiscale, ma investe molti altri campi». E da qui l'ambiziosa proposta: «ciò che nei prossimi cinquant'anni si deve cambiare è il rapporto tra Stato e cittadino che oggi si configura come quello tra il Sovrano e i suoi sudditi. Esso si traduce in norme che non oseremmo neanche lontanamente immaginare nel rapporto tra privati e prende la forma di una capillare e continua invadenza nelle vite di tutti noi».

Tutto ciò ha una storia e Giorgio Rebuffa, da par suo, ce lo scrive intrecciando le vicende del Risorgimento e la costruzione della nostre regole di diritto pubblico. Ve la facciamo semplice (ma il capitolo val la pena di leggerlo con attenzione, poiché è da quella sinistra storica che nasce l'impostazione che oggi ci sta soffocando): il diritto pubblico, le sue norme, godono di una certa sovraordinazione, maggiore forza, rispetto a quelle che valgono tra privati e al codice civile.

Rebuffa sostiene, senza giustificarlo, che ciò sia stato in parte dovuto ad «esigenze organizzative» di quello che era uno Stato in fieri, che insomma doveva costruirsi e non guardare troppo per il sottile. Più prosaicamente Giuseppe Gioacchino Belli, in epigrafe al libro, recita: «io sò io, e vvoi nun zete un cazzo, sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto».

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