Era ipotetico il tono ma perentorio il senso del rapporto del Congresso degli Stati Uniti: «Sarebbe un terremoto scoprire che il governo di Bill Clinton ha commesso l'errore di far installare in Europa iraniani e altri estremisti» (16 gennaio 1997). Quasi dieci anni dopo, l'errore è stato scoperto, in Bosnia fra il 1992 e il 1995, in Kosovo e in Macedonia subito dopo e non solo dal 1999, quando la guerriglia islamista dell'Uck venne promossa da terrorismo a patriottismo dalla «comunità internazionale».
Però il terremoto non c'è stato e fra due anni alla Casa Bianca potrebbe governare Clinton: Hillary, non Bill, ma anche per lei sarebbe Madeleine Albright a dirigere l'orchestra balcanica. Infatti il Congresso non ha tratto le conseguenze dal rapporto del 1997. Dopo di esso, infatti, Clinton ha sì rischiato l'impeachment, ma per la Lewinsky, non per «aver fatto installare iraniani e altri estremisti in Europa». La stampa, che lo martoriò per aver mentito su una leggerezza, in compenso continua a risparmiargli ben più gravi accuse per il degrado politico a Sarajevo e Pristina. E oggi, quando quasi nessuno sa quel che accade là, è fondamentale il libro di Jürgen Elsässer, Wie der Dschihad nach Europa kam (NP Verlag), apparso anche in francese col titolo Comment le Djihad est arrivé en Europe (Editions Xenia, pp. 302, euro 19, www.xeditions.com).
Bosnia, Kosovo: passato prossimo che par remoto... Sarajevo risorgeva dalle macerie proprio quando in macerie finiva Pristina. Ma oggi del capoluogo bosniaco colpisce meno il ri-costruito che il costruito per la prima volta. Per dimensione e quantità stupiscono le moschee, le più grandi d'Europa, finanziate dall'Asia islamica e sunnita: Arabia, Emirati, Pakistan e Malesia soprattutto; sciita, l'Iran s'è occupato di fornire armi e formare uno dei due servizi segreti della Bosnia (all'altro hanno pensato gli Stati Uniti). Alla rinnovata edilizia sacra, sorta indirettamente grazie a chi impedì ai serbi di soffocare il germe integralista nel cuore d'Europa, corrisponde un ritorno di devozione: le bosniache ora hanno il velo, cui madri, nonne e bisnonne - musulmane come loro - avevano rinunciato senza drammi.
Il problema è proprio questo: l'integralismo islamico - che ne origina uno cristiano, apologeta dello scontro di civiltà - in Bosnia appare ormai una scelta più che un'imposizione. In questo senso il (non la) jihad - la guerra santa - ha già fatto pacifiche conquiste. Idem in Kosovo, dove la procedura anti-serba e implicitamente filo-islamista è stata la stessa.
Le religioni, si sa, non si fermano ai confini di Stato. Grazie al turgore dell'Islam reimportato e superarmato anche da compagnie di ventura statunitensi, la contigua Albania vuol diventare Grande Albania, con l'aggiunta del Kosovo e di mezza Macedonia, quella largamente albanofona. Così, accanto al neoindipendente Montenegro, davanti alla Puglia si sta combinando una miscela mediterranea di Colombia, per criminalità organizzata; di Pakistan, per virulenza teocratica; di Indonesia per dinamismo demografico; di Palestina, per risentimento storico. Che cosa unisce Sarajevo a Karachi, per esempio, oltre la presenza di emissari dei servizi segreti pakistani, burattinai di tanta sovversione nel segno della mezzaluna? Per esempio il risentimento per un vicino d'altra fede che è stato anche un padrone severo (Serbia qui, India là). Oltre al dilagante chador del presente, che cosa unisce bosniache e indonesiane? Il passato laico: mezzo secolo fa, i loro Paesi (la Bosnia era allora parte della felix Jugoslavia) guidavano il laicissimo movimento dei non-allineati.
Sì, allora la politica - non la religione - pareva riscattare i popoli. La democrazia plebiscitaria dei partiti unici o quasi aveva ancora davanti a sé bei giorni, intensi come quelli del novembre 1956, quando gli Stati Uniti puntavano su un altro laicissimo non-allineato come l'Egitto per finirla col colonialismo anglo-francese e per aprire il Mediterraneo alla loro flotta, ma anche alle nostre merci e al petrolio che ci serviva per fabbricarle. Altri tempi, quando a uno scià che partiva, subentrava, caso mai, un Mossadeq e non un Khomeini.
Tout se tient, in un'area geopolitica ben più vasta di quella mediterranea. Ma qui premono le faglie dei monoteismi e degli imperialismi che li manovrano. S'è ormai capito - ma è tardi - che coi senza-dio del Baath o di Fatah si può far politica, oltre che affari; con chi un Dio l'ha e lo crede unico, come Hamas o Hezbollah, si fanno solo affari o guerra.
Al crepuscolo del non-allineamento e del terzomondismo, coi quali si potevano far affari e politica, ha corrisposto l'aurora del finto allineamento, alla maniera saudita e pakistana, e dell'integralismo, coi quali si possono solo far affari in attesa di combattere. Ma come l'integralismo ha prevalso? Perché dei preti islamici hanno umiliato re e colonnelli? Prima di gettarsi in avventure militari in Libano, andrebbero capite cause, concause, contesto dello scontro, che non è di civiltà, ma è comunque serio.
Nel Libano di oggi, difficile ripetere i miracoli che nel Libano di ieri compì il colonnello Giovannone dei servizi segreti, grazie al quale le caserme americane e francesi di Beirut saltavano, ma quelle italiane no, senza neppure che qualcuno lo impallinasse, come il povero Calipari. Ora si hanno davanti ben altri guerriglieri per armamento e motivazione, visto che a loro interessa meno la propria terra che la propria (e altrui) morte. Gente pronta a immolarsi, ma che comunque sopravvive abbastanza per avere esperienza militare. Elsässer constata per esempio che gli attentati di New York (11 settembre 2001), Madrid (11 marzo 2004) e Londra (7 luglio 2005) sono stati tutti eseguiti da veterani della guerra di Bosnia, la stessa dove l'egiziano attentatore nel 1981 del presidente Sadat, Al Zawahiri, ora considerato numero 2 di Al Qaida, fu gran fornitore, per i mujahiddin, d'armi che venivano da ogni parte.
A proposito di questi veterani e di come si sono meritati questa qualifica, Elsässer cita Richard A. Clarke, capo dell'antiterrorismo americano sotto quattro presidenti. I mujahiddin in Bosnia - scrive Clarke - «hanno torturato e massacrato in un modo che supera ogni descrizione». Elsässer ricorda anche che da 1.500 a 3.000 serbi, rimasti a Sarajevo nel maggio-giugno 1992, furono assassinati (causando il lungo assedio serbo). Il riferimento è al fatto che «i guerrieri di Dio, afghani e sauditi soprattutto» decapitarono molti nemici serbi catturati (c'è un filmato dell'epoca che li mostra giocare a calcio con teste mozzate). Lo stesso destino cui andrà incontro l'americano Nicholas Berg nella Bagdad 2004.
Non solo: le stragi al mercato di Sarajevo, attribuite ai serbi da una stampa che aveva bisogno di un cattivo, erano invece - Elsässer lo conferma, prove alla mano - opera degli integralisti musulmani, per dare un pretesto all'intervento della Nato, usando i propri civili come strumento per far passare per criminali i militari nemici, anche questo un metodo che avrebbe avuto recentissimi séguiti.
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