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C'era una volta la fiaba

Tv, web e videogame oscurano le "vecchie" favole e con esse l’incanto e il gioco. Cioè le emozioni. Morale: sorella minore del mito, la favola sta sparendo dall’esperienza quotidiana dei bambini

C'era una volta la fiaba

Un tempo non troppo lontano, o ahimè forse lontanissimo, l’educazione di un bambino alla vita partiva dalle fiabe. Io ricordo ancora con una certa commozione il primo libro in assoluto che ebbi tra le mani e sotto gli occhi: a quattro anni, non sapevo ancora leggere e, guardando le illustrazioni, ascoltavo rapito la voce dei miei genitori che compitavano pazientemente le parole per me. Il libriccino conteneva una fiaba, in versi rimati, ricordo persino i nomi dei protagonisti, erano Talpa, vecchia e cieca, e Maialino Jolly, giovane e di buon cuore. Doveva essere una fiaba edificante. Ma il meraviglioso era che gli animali parlassero, provassero sentimenti, avessero le stesse debolezze di noi umani. E naturalmente è il meraviglioso, e non l’edificante, che attrae un bambino.

Poi vennero altre favole. Incontrai animali parlanti, streghe malefiche, orchi ridicoli, giganti prepotenti, nani astuti. Da lì, fu breve il salto ai libri di avventura, di viaggio, di fantascienza, a Verne, Kipling, Stevenson, su cui passai le ore più belle dei miei primi anni. La favola è la sorella minore del mito. Non ci parla degli dèi e dei primi principi, del mondo, ma semplicemente di un mondo pre-logico, popolato da immagini tipiche della mente infantile. Che abbiano o no la loro «morale», le favole ci educano a stupirci, a inventare, a volare lontano, a sentire brividi, passioni, il grande potere del mistero. E mantengono vivo per noi un mondo in cui regnano l’innocenza e l’incanto. Mettere le fiabe da parte, considerarle vecchie e regressive, vuol dire proprio cancellare innocenza e incanto, gioco ed entusiasmo, tutta quella parte emozionale di noi che è fondamentale proprio per sostenere nella vita adulta il peso della ragione, della consapevolezza, del dovere. Un mondo senza miti è un mondo appiattito, cadavere. Una mente senza favole è una mente ristretta, normalizzata, robotizzata.

Oggi, mi dicono, ci sono bambini che vanno matti per le storie horror, per gli squartamenti, le autopsie, gli zombi e gli ectoplasmi. È in ogni caso un bisogno di fiaba, ma degradato, che mi impressiona e mi impaurisce. Possibile che il nostro tempo non riesca neppure più a opporre una fata di luce ai draghi del buio, della decomposizione e della morte? A volte ho l’impressione che la dimensione della fiaba stia scomparendo dall’esperienza quotidiana dei bambini, delle famiglie, della scuola. Sembra che diventi sempre più difficile giocare con i fantasmi della propria fantasia in libertà e sognare a occhi aperti. La mente è precocemente e massicciamente occupata da televisione, Internet, giochi elettronici che assorbono e stordiscono nell’istantaneità, abolendo ogni racconto.

È strano come la televisione in sé, a differenza del cinema, sia estranea a tutto ciò che è immaginazione e fantasia. Raramente, almeno per me, lo schermo si illumina di qualche attimo di fiabesco, con il Benigni più dolcemente giullare, il Celentano più candidamente strampalato...

Anche Internet non sviluppa il fiabesco, e si esprime a livello di massa in quel super-reality globale che è Youtube. Tutti a filmare, riprodurre, comunicare, scambiare. E poi? Possibile che nessuno abbia più desiderio di inventare mondi altri e paralleli, viaggiare nei boschi e attraversare i giardini e i palazzi dove si affacciano nuovi Pollicino, e nuove Cappuccetto Rosso, Biancaneve e Cenerentola? Io non ci credo.

L’immaginazione, il meraviglioso rivendicheranno i loro diritti, per qualunque via dovranno passare. Qualcuno avrà sempre voglia di iniziare e tramandare il suo personale, libero racconto. C’era una volta la favola, e io sono sicuro che ci sarà ancora.

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