Una chance rischiosa per spezzare l’asse con Teheran

Il regime siriano, ultimo obbiettivo della piazza araba, è solo in apparenza simile a quelli di Tunisia, Egitto e - parzialmente - Libia, già travolti dalla contestazione: eguale è il rigore poliziesco con cui vengono repressi gli aneliti alla libertà e alla democrazia, ma diverse sono le origini, la struttura e soprattutto la politica estera. È, nello stesso tempo, figlio di un partito, il Baath (motto «Unità, libertà socialismo») che ha svolto un ruolo importante nella storia del Medio oriente; feudo di una famiglia, gli Assad, che domina il Paese da quando, 40 anni fa il vecchio Hafez, allora comandante dell’aviazione, mise fine con un colpo di Stato a un periodo di grande turbolenza; espressione di una minoranza religiosa, quella degli Alawiti, una setta dissidente dello sciismo, che pur rappresentando solo il nove per cento della popolazione è arrivata a occupare tutti i posti di potere; campione dello Stato laico, tollerante nei confronti di tutte le fedi (cristiani compresi), ma inflessibile verso i fondamentalisti islamici al punto di reagire a un loro tentativo di insurrezione massacrandone ventimila nella città di Hama nel 1982.
Ma è soprattutto sul fronte internazionale che la Siria degli Assad si differenzia dagli altri Paesi arabi: dopo essere stata, fino alla dissoluzione dell’Urss, quasi un’appendice del Patto di Varsavia nel Mediterraneo, ha rifiutato la mano che le tendeva l’Occidente e stretto un patto di ferro con l’Iran degli ayatollah, che la rifornisce generosamente di armi e di petrolio. Questa strana alleanza tra uno Stato laico e una teocrazia ha profondamente influenzato la geopolitica della regione. Non solo la Siria è l’unico Paese arabo tecnicamente ancora in guerra con Israele, che nel ’67 le ha strappato le alture del Golan, ma è anche la protettrice dei principali movimenti votati alla distruzione dello Stato ebraico: ospita a Damasco la direzione politica di Hamas, ha equipaggiato l’Hezbollah sciita con le migliaia di missili puntati sulla Galilea dal Libano meridionale ed alimenta tutte le tensioni che possono mettere in difficoltà Gerusalemme. Pur non condividendo l’antiamericanismo esasperato di Teheran, durante il conflitto iracheno ha permesso il transito sul suo territorio di migliaia di jihadisti di ogni nazionalità che andavano a combattere il «Grande Satana». Per anni ha cercato di sottomettere il vicino Libano, in cui ha mantenuto un forte contingente di truppe fino a quando la pressione degli altri Paesi arabi, che la considerano con diffidenza, non l’ha costretta a ritirarsi; ma è sicuramente responsabile dell’assassinio del premier Hariri e di una serie di altri delitti che hanno insanguinato Beirut negli ultimi anni.
Molti speravano che il giovane Bashir, succeduto al padre nel 2000 dopo una elezione-farsa, avrebbe impresso al Paese una svolta in senso liberale. Si illudevano: un po’ per il condizionamento della vecchia guardia, un po’ per una sua personale involuzione, ha favorito qualche modernizzazione in campo economico, ma ha mantenuto in vigore la legge di emergenza, imposto uno strettissimo controllo sulla stampa e tenuto in galera oltre quattromila oppositori. Per questo, le sue aperture degli ultimi giorni sono apparse, più che l’alba di un’era di riforme, un segno di debolezza di un regime che pure dispone di un formidabile apparato di sicurezza.
Di fronte a un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi se i governi occidentali guardino con simpatia alla rivolta e si siano affrettati a intimare a Damasco di non reprimere le dimostrazioni con la violenza. Esattamente come negli altri Paesi arabi, la piazza siriana porta avanti un misto di rivendicazioni politiche, economiche e tribali di difficile interpretazione, non ha per ora alcuna leadership ed è perciò impossibile prevedere a che tipo di governo darebbe vita se riuscisse a sbarazzarsi degli Assad.

Nel Paese non mancano le pulsioni fondamentaliste, che si riflettono tra l’altro nella graduale «islamizzazione» dei costumi delle donne. Ma un ritorno al potere della maggioranza sunnita dovrebbe anche portare a un raffreddamento con Teheran; e questo sarebbe, per Usa e Ue, un enorme sollievo.

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