Che sciocchezza dar la colpa al riscaldamento globale

Cento milioni di persone in più dell’anno scorso, per un totale di ottocentoventi milioni soffrono la fame in seguito al recente, vorticoso aumento dei prezzi delle derrate alimentari. Per cercare un rimedio, la Fao riunisce a Roma oltre 40 capi di Stato e di governo, tra cui noti campioni dei diritti umani come l’iraniano Ahmadinejad e lo zimbabwiano Mugabe, che hanno molto contribuito ad affamare i rispettivi popoli. Che cosa combineranno è tutto da vedere, ma quel che è certo è che, nei tre giorni di lavori, sentiremo tutto e il contrario di tutto, e anche se il rapporto preparato dall’Onu venisse approvato, è difficile che i governi ne seguano le indicazioni se andassero contro i loro interessi.
Tutti, più o meno, sono d’accordo sulle cause dell’emergenza: l’aumento dei consumi nei Paesi emergenti (Cina e India in testa), il crescente uso di canna da zucchero, mais e altri cereali per la produzione di biocarburanti, l’aumento del costo dei trasporti, la mancanza di piogge in Australia, la speculazione e la politica dei Paesi ricchi che pagano tuttora i loro agricoltori per contenere la produzione. A questo vanno aggiunte - secondo la stessa Fao ma non secondo altri - le prime conseguenze del riscaldamento del pianeta.
Dove invece, regna la confusione più completa, è sull’incidenza relativa di queste cause: per la Banca mondiale, per esempio, il massiccio utilizzo di terreni coltivabili per produrre biocarburanti sarebbe responsabile per il 65% degli aumenti, per la Fao solo del 10-15%, per gli Usa (che al pari del maggiore produttore, il Brasile, hanno già dichiarato che non intendono cambiare politica) addirittura solo del 3%. Ban Ki-Moon punta il dito contro i Paesi che hanno introdotto tasse sull’agricoltura, controlli dei prezzi o restrizioni sul commercio, come l’Argentina e la Thailandia che hanno contingentato le esportazioni di carne e di riso per calmierare i prezzi interni. I Paesi del Terzo mondo accusano a loro volta Unione Europea e Stati Uniti per le loro politiche protezionistiche. Molti esperti, poi, imputano la crisi all’insufficiente sostegno fornito ai piccoli agricoltori dell’Africa e dell’Asia, e citano come esempio il caso del Malawi dove una accorta distribuzione di sementi e fertilizzanti ai contadini ha avuto l’effetto di raddoppiare la produzione in un paio d’anni. Infine, avremo un replay dell’eterna diatriba tra sostenitori e avversari degli Ogm, che per gli uni sarebbero il vero toccasana e per gli altri i fattori di una possibile catastrofe ambientale.
Per la prima fase dell’intervento, ci sono 1,2 miliardi di dollari stanziati dalla Banca mondiale e altrettanti richiesti dalla Fao ai donatori: dovrebbero andare ai quindici (ma il numero potrebbe variare) Paesi poveri che più dipendono dalle importazioni. Se poi la Fao, che non brilla certo per efficienza e spesso ha adottato strategie sbagliate, sarà in grado di fare pervenire i soccorsi alle giuste destinazioni è un altro paio di maniche. Ma sarà soprattutto la seconda fase del piano di Ban Ki-Moon, che prevede un forte aumento degli investimenti in agricoltura e un incremento della produzione mondiale, a creare difficoltà di gestione. Sia l’Europa, sia gli Usa, per esempio, stanno sì tentando una modifica delle rispettive politiche agricole, ma si stanno già scontrando con interessi corporativi (e nel caso della Ue, nazionali) non indifferenti. Un abbandono anche parziale della produzione di biocarburanti, d’altra parte, contribuirebbe almeno in un primo tempo, alla già pazza corsa del petrolio.


Un solo dato è di conforto: nonostante siccità e cambiamenti climatici, la terra ha ancora il potenziale per nutrire tutti i suoi abitanti, e in teoria la produzione, potrebbe essere incrementata in tempi relativamente brevi. Il difficile è mobilitare tutte le risorse e metterle a disposizione di tutti a condizioni accettabili.

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