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Che vergogna i fischi a Bondi. Ma lo Stato ora deve dire la verità

Il 2 agosto 1980 era un sabato tanto simile ai sabati di questa estate. Le fabbriche erano chiuse il giorno prima, l’Italia andava in vacanza, almeno per un po’ avrebbe dimenticato i suoi guai, le sue crisi, perché oggi parliamo tanto di crisi, ma se andiamo indietro con la memoria quella parola lì, «crisi», nel nostro Paese è sempre stata presente. Anche l’Italia di allora aveva le sue turbolenze. E che turbolenze. Il veleno lasciato dagli anni Settanta continuava a far vittime: in quell’anno era stato ucciso il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, a Milano le Brigate rosse avevano massacrato tre agenti della Digos, a Genova Prima linea aveva steso il colonnello dei carabinieri Emanuele Tuttobene e l’agente Antonio Cosu. E ancora: a Milano era stato ucciso il giornalista del Corriere Walter Tobagi, a Roma il vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. Colpivano anche i terroristi di destra: il sostituto procuratore della Repubblica Mario Amato, che indagava sull’eversione nera, era stato ucciso dai Nar.
Però, anche se è difficile spiegarlo dopo un simile elenco di lutti, era diffusa l’impressione che il vento stesse cambiando. Il Parlamento aveva varato la legge sui pentiti che cominciava a dare i suoi frutti. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva convinto a parlare due tagliagole delle Br e di Prima linea, Patrizio Peci e Roberto Sandalo. Tante primule rosse, credute irraggiungibili fino a poco tempo prima, avevano finalmente un nome e un volto; e pure dei polsi da ammanettare.
Ma poi non era solo una questione di arresti. Si percepiva che il clima era diverso, che il Paese - tutto il Paese - aveva finalmente deciso di tagliare l’erba sotto i piedi a questi pazzi che giocavano alla rivoluzione. Basta consenso peloso nelle fabbriche, basta smancerie sui «compagni che sbagliano». Anche il Pci aveva deciso di dire davvero basta a sofismi e indulgenze, e quando il Pci diceva basta era basta: la Cgil, i servizi d’ordine, l’adesione alle leggi speciali.
Quel sabato 2 agosto 1980 in Italia era come se si avvertissero i primi sintomi di un riflusso, di una voglia di tornare finalmente a vivere. La stazione di Bologna era lo snodo principale dei vacanzieri: di chi andava all’Adriatico, di chi proseguiva verso il Sud, di chi era diretto al Brennero. Ero un giovanissimo cronista del Corriere d’Informazione, un mezzo abusivo, la mia prospettiva era un’estate di lavoro in redazione per sostituire i «regolari» che andavano in ferie. Le mie, di ferie, erano tre giorni a Milano Marittima. Ci sono momenti che restano scolpiti per sempre: ero di fronte all’Hotel Lido quando vidi che in edicola era arrivata un’edizione straordinaria del Resto del Carlino: «Scoppio alla stazione di Bologna». Sotto il titolo si osava avanzare un’ipotesi rassicurante, ammesso che ci si possa rassicurare di fronte a tanti morti: forse è stata una caldaia. (Mi venne un altro flashback, di quando ero bambino e mio padre tornò a casa dal centro di Milano e disse che c’era stato un disastro alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, lui era appena passato di lì. Anche allora si diceva: forse è scoppiata una caldaia. Più che un’ipotesi era una speranza).
Presi la macchina e corsi a Bologna. La stazione, quella stazione che mi era tanto cara, dove tante volte ero arrivato da Milano, sembrava un’immagine spuntata dagli orrori del passato, dei bombardamenti raccontati dai nonni. La sala d’aspetto non c’era più, l’orologio era fermo su un’ora segnata non dal destino ma dalla malvagità degli uomini: 10,25. In un attimo, 85 morti e 207 feriti, di cui 70 con invalidità permanenti.
Ventinove anni dopo, il rappresentante del governo italiano intervenuto per la rituale commemorazione è stato fischiato, interrotto, insultato. Che cosa c’entri il ministro Sandro Bondi con i criminali che misero quella bomba, è un mistero che probabilmente non riescono a svelare neanche coloro che hanno dato vita alla contestazione. Forse, anzi quasi certamente, chi fischiava interrompeva e insultava non aveva come bersaglio gli attentatori del 2 agosto 1980 ma il governo di oggi. Non si spiegano altrimenti le grida contro Berlusconi e le sue attuali vicende personali, tanto discusse. Vogliamo dire che è stato un pretesto per prendersela con il solito Berlusconi? Ma sì, è così.
Però, nel condannare senza se e senza ma i «fascisti di sinistra» che ieri hanno impedito a un uomo innocente di parlare, non si può dimenticare che lo Stato ha un conto aperto con il popolo. Ogni generazione ha il suo ricordo di sangue, e per chi oggi abbia almeno cinquant’anni questo ricordo sono gli anni del piombo e delle stragi. Di chi usò il piombo, sappiamo quasi tutto: sigle, nomi, cognomi. Di chi seminò la morte nel mucchio, fra le donne e i bambini, non sappiamo quasi nulla. Chi ha messo la bomba in piazza Fontana? E sul treno «la freccia del Sud»? E in piazza della Loggia a Brescia? E sul treno Italicus? E a Ustica, che cosa è successo a Ustica? Per la strage del 2 agosto sono stati condannati due estremisti neri, Fioravanti e la Mambro, che tanto erano già in galera, all’ergastolo, per altri reati. Che siano stati loro, o perlomeno solo loro, non ci crede nessuno: nemmeno il manifesto, che ha avanzato e avanza ancora tanti dubbi. Dopo tanti processi, purtroppo l’unica cosa accertata è che quasi sempre una parte dei nostri servizi segreti è intervenuta per depistare.
Non si dica che questo è un accodarsi a una certa retorica di sinistra. Ieri l’ha detto anche Gianfranco Fini: «A tanti anni di distanza ritengo sia dovere assoluto delle istituzioni accertare la verità». Chi ha fischiato Bondi è ingiustificabile. Ma lo Stato ha un debito da saldare.

Il sangue degli innocenti grida ancora, se non vendetta, bisogno di verità.

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