Sarebbe ipocrita negare l’esistenza di un contrasto tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Meglio discuterne schiettamente e cercare di comprenderne i motivi. Ci proviamo pur consapevoli del rischio di inimicarci entrambi i personaggi. Il presidente del Consiglio non è un teorico, è interessato alle idee solo se mettendole in pratica danno subito dei risultati concreti. È un pragmatico, attento alle faccende di tasca, soprattutto la sua. Quando, 17 anni orsono, scese in politica, aveva in mente un programma semplice a dirsi, ma difficile da realizzarsi, considerata la storia della nostra Repubblica.
In sintesi, voleva che in Italia si compisse
la rivoluzione liberale. Vinte le elezioni - tre volte - non è però
riuscito nemmeno a cominciarla. Perché aveva tutti contro? Non solo
per questo. Ma anche perché, insediatosi a Palazzo Chigi, si è accorto
di non possedere armi idonee per smantellare il «socialismo di fatto»
organizzato dai governi succedutisi dagli anni Sessanta a quelli
Novanta. O forse aveva sottovalutato che, per costruire un sistema
liberale, bisognava prima demolire il sistema socialista che si era
sviluppato a causa dell’influenza esercitata dalla sinistra sugli
esecutivi a prevalenza democristiana. In sostanza la Dc, per reggere
alla concorrenza di un Pci fortissimo, e alle pressioni
dell’ultrasinistra in costante crescita dal ’68 in poi, aveva ceduto
alle richieste di spesa sociale provenienti dall’opposizione. In due o
tre lustri l’Italia si trovò a dover finanziare un welfare pesante,
una specie di Stato (...) mamma che provvedeva ad accompagnare il cittadino
dalla culla alla tomba, tutto gratis: imprese assistite, Sanità
pubblica, pensioni a chiunque (anche a chi non aveva mai pagato
contributi), un mese di ferie (negli Usa solo due settimane), Statuto
dei lavoratori (praticamente era ed è impossibile licenziare i
fannulloni), assunzioni senza limiti nel pubblico impiego (che
lentamente si è trasformato in ammortizzatore sociale, vedi gli organici
pletorici della scuola), eccetera. Il debito pubblico, che agli
inizi degli anni Settanta era tra il 50 e il 60 per cento del Pil, si
impennò e da allora non è più sceso, anzi è progressivamente salito.
Non sarebbe potuto accadere qualcosa di diverso. Se in un Paese le
uscite superano le entrate, significa che esso si concede più di quanto
sia alla propria portata. Alcuni governi hanno tentato, in verità, di
contenere le spese, ma lo hanno fatto in misura insufficiente; non
per incapacità gestionale, ma per timore di compromettere, con tagli
efficaci allo Stato mamma, la pace sociale e di perdere consenso,
quindi le elezioni.D’altronde,se non le vinci tu, le vincono i tuoi
avversari. Sicché l’imperativo di chi conquista il potere è
conservarlo, non di gestirlo per il bene comune. Il discorso valeva e
vale per ogni partito o coalizione.
Per decenni ha così dominato questo precetto: tiriamo a campare. Per fronteggiare l’aumento costante della spesa, mai segata seriamente, i vari esecutivi non avevano altra scelta: azionare la leva fiscale. Imposte dirette e indirette sempre più elevate, manovre finanziarie asfissianti. E addio crescita economica, che difatti è tra le più basse d’Europa da tempo e non solo da che la crisi si è abbattuta sul mondo. L’irruzionediBerlusconiinpolitica fece un botto.
Lo slogan «Faremo la rivoluzione liberale» alimentò le speranze che si mutasse registro. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un marediguai. Nel1994ilgovernoebbe vita breve: meno di otto mesi. Il famigerato ribaltone fu esiziale. Seguirono cinque anni di centrosinistra, prima Romano Prodi, poi Massimo D’Alema e Giuliano Amato.
Tre presidenti del Consiglio che si
guardarono bene dal ridimensionare il welfare; in compenso,
tassaronoallagrandeicittadini, giustificandosi con l’esigenza di
agguantare la moneta unica, l’euro, che consentì al Paese di
stabilizzare il debito, ma al prezzo di uccidere i redditi per effetto
del cambio folle: 1.936 lire per lo straccio di un euro.
La legislatura dal 2001 al 2006 doveva essere quella buona per inaugurare la benedetta rivoluzione liberale.
Ma non se ne parlò nemmeno, perché la coalizione (Forza Italia, Udc,
Lega e An) non faceva che litigare su qualsiasi punto programmatico.
Tagli alla spesa, manco uno. E veniamo (saltando il periodo
2006-2008,tuttoprodiano)all’attualità. Berlusconi partì a razzo.
Sembrava fosse giunto il momento buono per imporre una bella dieta
allo Stato mamma. Neanche per sogno. Lacrisi, ilterremoto,
le bizze di Gianfranco Fini; intemperie che
impedirono di risolvere il problema dei problemi: sforbiciare non solo gli
sprechi e i privilegi della Casta, ma anche l’ubertosa pianta del
welfare che frenava la crescita economica.
Ciò nonostante, Giulio
Tremonti è stato in grado di barcamenarsi con i conti, tenendoci a
galla. È già stato un successo. Ma ora non basta più
barcamenarsi.O si fa la rivoluzione liberale o la legislatura si avvia miseramente
al termine senza aver concluso un accidenti sul piano strutturale.
E qui arriviamo agli attriti fra il premier e il ministro
dell’Economia. Il primochiedealsecondodiprocedere in due sensi:
ridurre all’osso lo Stato sociale, cioè la spesa pubblica
sproporzionata per eccesso rispetto alle disponibilità di cassa,
alleggerire la burocrazia e gli apparati mastodontici (e costosi)
della politica, e promuovere una riforma fiscale che abbassi le tasse
(affinché tutti le paghino), investire nelle infrastrutture e nei
servizi (per agevolare le imprese) e incentivare i consumi.
Ma
Tremonti nicchia. Perché è cattivo? Perché vuole sgambettare il
presidente del Consiglio? Nossignori. Tremonti è socialista, ha una
mentalità diversa da quella di Berlusconi, e non ci sta a smontare lo
Stato mamma. La sua preoccupazione è che i cittadini non siano privati
della sicurezza di essere tenuti per mano dalla culla alla tomba.
Quindi il ministro non limerà mai la spesa pubblica che assorbe più
risorse di quanteneproduciamo;eperpareggiare i conti punta sull’aumento degli
introiti. E come si possono aumentare gli introiti se non tassando di
qua e di là secondo lo schema adottato dalla Prima e dalla Seconda
Repubblica?
Giulio non farà mai la rivoluzione liberale perché non
ci crede, non gliene frega niente. Gli preme la pace sociale,
l’accordo con i sindacati; insomma, ha una visione socialista, non
liberale. Tant’è che l’abolizione degli Ordini professionali, che pure
era stata inserita nella manovra, è sparita. O è stata buttata in un
cestino o giace in fondo a cassetto. Figuriamoci se uno come lui, bravo
bravissimo, preparatopreparatissimo, si danna l’anima per comprimere
la spesa fino a renderla compatibile coi soldi che abbiamo. Al
contrario, si ingegna per raggranellare denaro a sufficienza per
sostenerla. Peccato che quel denaro sia il nostro.
Se Berlusconi
pensa di convertire Tremonti al liberalismo, si illude. Dopo tanti
anni di collaborazione con lui, dovrebbe averlo capito: il ministro è
socialista e fa il socialista. Lo si può accusare di tutto meno che di
essere incoerente.
Quanto al fatto di aver dato del cretino al collega Renato Brunetta, sia pure sottovoce davanti a un microfono lasciato incautamente aperto, ovvio che il ministro dell’Economia abbia sbagliato. Non doveva dire una cosa simile, anche perché era già noto che la pensasse. Un giudizio che non condividiamo.
Infine, la questione del comma (cancellato) sulla liquidazione dei risarcimenti a sentenza definitiva, anziché dopo il primo o secondo grado. Tremonti in conferenza stampa ha invitato a chiedere lumi a Gianni Letta.Ma lui dov’era quando è stata scritta la manovra? Escludiamo che dormisse.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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