La Chiesa "moderna"? È ancora un dogma

Un saggio di Sergio e Beda Romano spiega il difficile rapporto fra la Santa Sede e il liberalismo. La storia e la cronaca dimostrano le resistenze a ogni reltivismo

La Chiesa "moderna"? È ancora un dogma

La Chiesa contro. È il titolo perentorio, se non provocatorio, del saggio - Longanesi, pagg. 250,euro 16,60 - che Sergio Romano e il figlio Beda hanno dedicato ai grandi problemi politici ed etici che l’incalzante progresso scientifico e l’evoluzione dei costumi pongono agli Stati, alla Chiesa, ai cittadini. Una nota nel risvolto di copertina sintetizza la situazione. La gerarchia cattolica vede in queste rivoluzioni una minaccia alle sue verità, alla sua missione e alla sua funzione. Non sorprende quindi che nelle nuove sfide della modernità essa si ponga come forza frenante e di opposizione.
Il lavoro dei Romano è diviso in due parti. La prima, di carattere prevalentemente storico, è stata scritta da Sergio; la seconda, dedicata ai grandi temi e ai grandi quesiti dell’attualità - fino alle vicende strazianti di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro - da Beda. Capisco quanto interesse vi sia in questa seconda parte che tratta di procreazione assistita, matrimoni gay, ricerca sulle cellule staminali, clonazione, eutanasia. Ma addentrandomici finirei per smarrirmi. Preferisco limitarmi alla parte del libro più vicina alle mie conoscenze ed esperienze e che si giova della prosa asciutta e dell’informazione accurata di Sergio.
L’ex ambasciatore, liberalconservatore dichiarato, è rispettosissimo della religione, ma nel profondo delle sue convinzioni anticlericali. Del suo anticlericalismo fa professione in alcune pagine dedicate alla lotta di Benedetto XVI contro il «relativismo». Essa ricorda la lotta ancor più intransigente che Pio X mosse al modernismo, dottrina che secondo lui insidiava la Chiesa dall’interno. L’atteggiamento di Benedetto XVI dimostra, scrive Sergio, che la Chiesa attuale non può essere «moderna», così come non lo è stata quella di Papa Sarto. «Esiste un nucleo di verità, precetti e norme morali su cui non può accettare compromessi. È un atteggiamento rigoroso e ammirabile. Il guaio, tuttavia, è che la parola relativismo ha assunto due significati diametralmente opposti. Per Benedetto XVI è il continuo fruscio di idee, teorie e mode intellettuali che svolazzano come falene intorno alla fiamma eterna della Verità. Per noi è un ingrediente fondamentale della nostra esistenza. Siamo relativisti perché soltanto il relativismo ci permette di vivere, senza spargimenti di sangue, con persone che hanno convinzioni radicalmente diverse dalle nostre. Siamo relativisti perché il relativismo è sinonimo di tolleranza».
Molto ben detto. Condivido le espressioni di Sergio Romano. Il quale, da esperto diplomatico, ha una particolare abilità nel riassumere eventi in cui religione e politica s’intrecciarono. Come il veto che l’Austria, rivendicando un antico privilegio delle potenze cattoliche, oppose, nel 1903, all’elezione papale dell’inviso segretario di Stato cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. L’incarico di annunciare la proibizione di Vienna in seno al Conclave fu affidato a un cardinale polacco, Jan Puzyna, che l’avrebbe volentieri passata ad altri. Ma non ci riuscì, e prese la parola. «Ma il testo era così convoluto e il latino dell’oratore così rozzo e stentato che l’annuncio fu compreso soltanto quando fu chiesto a un cardinale italiano, Felice Cavagnis, di leggerlo per la terza volta». L’eletto fu Pio X e, nominato grazie a quell’interdetto, ottenne l’abolizione del veto.
Occupandosi di Giovanni XXIII, Romano sottolinea che sotto l’apparenza bonaria e ingenua quel contadino bergamasco aveva eccellenti qualità di negoziatore. Dovette utilizzarle quando toccò a lui, nunzio in Bulgaria, d’impegolarsi in un contenzioso per il matrimonio di Giovanna di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III, con re Boris di Bulgaria. La Santa Sede pretese che il rito fosse celebrato secondo le regole di Santa Romana Chiesa, il che avvenne ad Assisi il 25 ottobre 1930. Ma quando la coppia arrivò in Bulgaria vi fu una seconda cerimonia nella cattedrale ortodossa di Sofia.

Non solo: la prima figlia di Boris e di Giovanna fu battezzata secondo il rito ortodosso. Roncalli temette d’essere trasferito o richiamato a Roma, per punizione, da Pio XI che aveva manifestato la sua «penosissima sorpresa». Rimase invece in Bulgaria fino al 1935.

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