Lo choc dell’Olocausto segna tutta la sua opera

La tecnica «a collage» dello scrittore tedesco è come il retino dell’acchiappafarfalle E cattura ovunque le prede dei ricordi

Aveva già diciassette anni Winfried Georg Maximilian Sebald allorché seppe, guardando con i compagni a scuola il documentario girato dagli Alleati all’apertura del Lager nazista di Bergen-Belsen, che cosa accadde in Germania qualche anno prima mentre, scrisse, «vivevo serenamente i miei primi anni di vita e la sorella di Kafka veniva deportata ad Auschwitz». Nato il 18 maggio 1944 a Wertach, un paesino tra le alpi bavaresi nell’Allgäu, da famiglia poverissima e non ebraica, Sebald non poteva avere un ricordo consapevole del genocidio. Lo choc della scoperta improntò di quella visionaria memoria tutta la sua opera: composta dopo l’emigrazione che, attraverso la Svizzera, lo portò negli anni Sessanta in Inghilterra dove, per ben trent’anni, prima di morire in un incidente d’auto il 14 dicembre 2001 nel Norfolk, insegnò letteratura tedesca all’Università di Norwich.

Ciascuno dei suoi titoli - Gli anelli di Saturno (Bompiani, 1998) e gli adelphiani Austerlitz (2002), Vertigini (2003), Storia naturale della distruzione (2004), Il passeggiatore solitario (2006) - è un commovente capolavoro.

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