Ciclismo, Bettini al passo d'addio lancia Ballan sul tetto del mondo

Il due volte iridato si ritira con un capolavoro tattico: "Gli spagnoli nella mia rete". A Varese trionfa il classico bravo ragazzo tutto bici e famiglia. "Adesso spero solo di essere all’altezza"

Ciclismo, Bettini al passo d'addio 
lancia Ballan sul tetto del mondo

Varese - La riscossa del bravo ragazzo. Può succedere anche in Italia, di questi tempi, all'epoca dei bulli e dei bullismi. Può succedere che il migliore non porti capigliatura a cresta di cocorita, non abbia orecchini ovunque e non agganci piercing da nessuna parte. Il migliore del mondo, in bicicletta, ha l'aspetto del compagno di scuola di una volta, quello alto e magro, all'ultima fila, con le orecchie un po' in fuori e i labbroni prominenti, educato e generoso, ma soprattutto incapace di fare del male a una mosca.

Con questa faccia e questi modi, Alessandro Ballan, 29 anni, veneto di Castelfranco, sposato e papà di due bambine, spolvera e rinverdisce l'immagine di un'altra Italia, come look magari un po' rétro, ma come tempra e come carattere, come dedizione e come abnegazione, seconda a nessun'altra stirpe, neppure ai frenetici cinesi e agli infaticabili indiani.

Il compagno di scuola tanto bravo e tanto buono, incapace di fare del male a una mosca, quando entra in gara sa sparare fucilate tremendissime. Nel finale, dopo aver molto lavorato. Così aveva già vinto un trofeo enormemente nobile come il Giro delle Fiandre. Ma così, nel giorno più difficile, va a vincere la corsa che segnerà per sempre la sua esistenza, e che mai più scorderà, neppure a cent'anni, quando la memoria si fa optional.

In che cosa consista questo suo capolavoro è facilissimo da riassumere: campionato del mondo sulle strade italiane, tutte le altre nazionali a fare blocco contro di noi (poi dice che abbiamo il copyright del catenaccio: ma per piacere...), un pubblico da tanti zeri, un'attesa opprimente e l'obbligo di vincere. Con Bettini, come no, per via del suo tris storico, addolcito dall'annuncio di un precoce addio. Ma non appena il capitano si stufa di fare da piccione nel simpatico tiro al piccione messo su in giornata da spagnoli e belgi, mettendosi comodo a ruota e lasciando via libera agli altri talenti nostri, ecco la puntuale riscossa del bravo ragazzo. Il dovere lo chiama, Ballan risponde. Dopo alcuni tentivi negli ultimi giri, cioè dopo aver molto sfacchinato, a due chilometri dal traguardo carica la sua famosa fucilata e tira il grilletto. Non c'è più verso di riprenderlo. Arriva a braccia alzate, in un delirio tricolore, come non si vedeva da tempo immemorabile. Anche le prime parole che contano, le prime che riesce a dire, sono perfette per il personaggio in controtendenza, da pennellone mansueto all'epoca dei bullismi: «Ancora non ci credo. Spero solo di essere all'altezza».

E sì che sei all'altezza, amico Ballan. Ce ne fossero all'altezza come te, in questo benedetto luogo di fanfaroni e di vanesi. Ce ne fossero ancora tanti capaci di parlare poco e di stare al proprio posto, senza bisogno di calarsi i jeans fin sotto i glutei per attirare l'attenzione e imporre la propria personalità. La tua vittoria, amico dell'ultimo banco, alto magro e mansueto, ripropone all'improvviso un altro stile e un altro timbro di vita, a dimostrazione che certi ruoli e certi volti non sono mai obsoleti, mai antichi, mai tristi, ma eternamente fieri e orgogliosi.

Casualmente, la tua vittoria coincide con un sacco di altre buone notizie in tinta azzurra. Assieme a te, sul palco, secondo, c'è quel Damiano Cunego che i capelli a cresta in effetti li porta, anche perché è ancora più ragazzino, ma che comunque perfettamente intepreta lo spirito della riscossa. Lui, uscito bastonatissimo da Tour e Vuelta, oberato di critiche e tutto sommato anche di stupidi sorrisetti, insegna a sua volta che nell'Italia degli smidollati e dei capricciosi, subito pronti a scappare davanti al primo ostacolo, c'è ancora gente capace di cavare il meglio proprio dalle sue stesse grane, come usava una volta, quando bisognava rimboccarsi le maniche dopo le rovine dei tempi.

Ancora casualmente, a completare un incredibile capolavoro in salsa veneta, è quarto l'eterno Rebellin, altra bella faccia di quella scuola démodé fondata sulla fatica e sul lavoro. Soprattutto, sulle chiacchiere zero.

Infine, sempre casualmente, dietro - o davanti - al memorabile successo ci sta un cittì, Franco Ballerini, capace nella terra dei clan e degli amichetti, dei circolini e dei quartierini, di fare scelte coraggiose, di lasciare fuori nomi illustri scopo bene comune, fino a miscelare le doti e i temperamenti di ciascuno in una mirabile cosa, in un mirabile nome che a noi suona sempre un po' indigesto, un po' ostico, un po' strano: una squadra.

Sono cose di sport, sono cose minuscole.

Ma per un giorno, a Varese, l'Italia riesce a riproporre un modello perfetto. Per un giorno, in concreto, insegna al mondo che cosa significhi il sistema-Italia. Quando c'è, quando ci va di farlo. Dev'essere per questo che per un giorno, in questo preciso giorno, è bellissimo sentirsi italiani.

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