Come al cinema

Chi ama i film di Marco Bellocchio apprezzerà la sensibilità e precisione con cui Patrizia Caproni - laureata in Filosofia e in Scienze dello Spettacolo e dottoranda di ricerca in Cinema - analizza, nel saggio «Lo sguardo inquieto», i lungometraggi più recenti del regista, citando spesso Jean-Paul Sartre perché «il cinema ha il privilegio di esprimere l'ambiguità e la frammentazione dell'esistenza tanto cara a certa filosofia del Novecento».
Pensiero e immagine, oggettivo e soggettivo, realtà e fantasia, presente e passato si intrecciano senza confini, creando incrinature in cui i protagonisti vivono un'instabilità esistenziale che li porta a «sgretolare i punti fermi e costruire partendo dalla fragilità»: punti fermi come le istituzioni, il potere, il conformismo, i valori etici borghesi a cui l'anticlericale Bellocchio si ribella da sempre. Ciò che resta è l'individuo, con il suo esistere e la sua coscienza.
In «L'ora di religione» (2002) il pittore ateo afferma la propria ricerca di libertà, senza gesti clamorosi, ma rifiutando di adeguarsi all'ipocrisia e al cinismo dei parenti che vorrebbero la farsa della beatificazione della madre. E l'autrice sottolinea il superamento della rivolta rabbiosa rappresentata da Bellocchio trent'anni prima nel film «I pugni in tasca».
In «Buongiorno, notte» (2003) l'immagine prende il sopravvento sulla parola. Il punto di vista non è quello della Storia, ma quello dei brigatisti che hanno rapito Aldo Moro e in particolare di Chiara, la cui presa di coscienza porterà, in un finale che vede l'immaginario trionfare sul reale, alla liberazione del prigioniero.
In «Vincere» (2009) il manicomio-prigione in cui è rinchiusa Ida Dalser simboleggia la mancanza di libertà degli italiani sotto il fascismo. Anche qui c'è un pezzo di Storia, raccontata attraverso il dramma della donna che osa ribellarsi al potere per gridare la propria verità di moglie di Mussolini e madre del figlio avuto da lui (E sta al lettore valutare il commento dello stesso Bellocchio, riportato nel libro, secondo cui l'atmosfera «di conformismo, di rassegnazione, di andare con chi è più forte» sarebbe comune all'Italia fascista e all'Italia di oggi).
In «Il regista di matrimoni» (2006) la rivolta si esprime anche con la fuga dall'immagine fissa e dalle regole filmiche, per approdare ad una «estetica del rifiuto» e ad un «oltre-realismo».

L'analisi della Caproni si sofferma su singole inquadrature, sul contrasto oscurità/luce, sulla predilezione per la penombra, sull'inquietudine così efficacemente espressa dalla macchina da presa e dal montaggio, sulla metafora delle gabbie presenti in forme diverse in ogni film, a simboleggiare gli ostacoli che si frappongono tra l'individuo e la libertà, in una ricerca senza fine.
Patrizia Caproni, «Lo sguardo inquieto. Marco Bellocchio tra immaginario e realtà», Le Mani Edizioni, pagg. 144, € 12.

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