CLAUDIO VELARDI

Claudio Velardi ha un curriculum stranoto, a maggior ragione di questi tempi con l’uscita del suo L’anno che doveva cambiare l’Italia (Mondadori): dirigente del Pci, capostaff dalemiano, fondatore del Riformista, lobbista di rango, imprenditore della comunicazione, però un piano sotto - anche nel senso della residenza - al Cavaliere. Eccetera. Affetto dalla tipica hybris partenopea, ama, come diciamo noi, le contraddizioni o, come dice lui, «le sintesi»: un napoletano che tifa Roma, un ex comunista che attraverso il riformismo tifa per la «rivoluzione liberale», un sostenitore della «terza via» passato armi e bagagli a scrivere che il capitalismo non si tocca. Un irrequieto. Lo incontriamo appena usciti da un convegno della Fondazione Craxi su «Il riformismo e la sinistra italiana». L’aperitivo ideale.
Nella quarta di copertina del suo libro si legge: «Ho il piacere di avere al governo un bel po’ di amici, persone che conosco da una vita». Se non riescono a cambiare il Paese «per loro non ci sarà una prossima volta». Cominciamo bene: un anno fa c’erano quattro milioni di italiani in fila alle cosiddette «primarie» per votare Prodi, oggi il centrodestra sta di nuovo sopra nei sondaggi.
«In un anno il centrosinistra ha perso dieci punti percentuali. Complimenti. Ciò che sta succedendo nel centrosinistra mi ricorda da vicino quello che accadeva col governo Berlusconi. Spuntano problemi? Fai finta di niente. Così ci si prepara solo alla più clamorosa delle sconfitte».
Perché la sinistra, o se vogliamo le sinistre, alla prova del governo riescono maluccio? Scelga. Il problema è di natura: 1) culturale, ovvero la storica «inaffidabilità» della sua cultura politica, come ha scritto Dino Cofrancesco; 2) politica, ovvero la sinistra non ha la mission; 3) di leadership, ovvero non ci sono «eroi» che indicano la rotta?
«Scelgo un mix. A livello di cultura politica non parlerei tanto di “inaffidabilità” ma di eccesso di persistenza: oggi con la vecchia cultura comunista i suoi nolenti eredi non sanno come agire. In questi anni la sinistra s’è trasformata non attraverso vere lacerazioni ma attraverso una successione di espedienti tattici. Così permangono scorie culturali che fanno male all’arte del governo. Un esempio concreto? Il sindacato, la logica pansindacalista che blocca in partenza qualsiasi slancio riformatore. Secondo punto, la mission. Certo, se prima non ti levi di dosso le incrostazioni del passato hai voglia a cercare la mission... Quanto alla terza questione, la leadership, sono convinto che un leader davvero forte potrebbe essere la chiave per superare i primi due problemi. Ma con Prodi...».
E chi potrà essere il leader? Veltroni? Nel 2001 lei ha detto, in una storica intervista al Corriere della Sera, che come leader politico era un incapace, uno pronto a squagliarsela il secondo prima che la nave affondi.
«Vecchi giudizi che ho riconsiderato da tempo. Da Veltroni, però, mi aspetto che superi ogni tatticismo. Che abbia il coraggio di fare, per usare una metafora da maratoneta, il passo dell’ultimo miglio».
Lei è uno dei più affezionati alla parola «riformismo». Piaceva tanto a Bettino Craxi, che i suoi ex compagni hanno infilzato come un pollo prima che Piero Fassino lo rivalutasse. Piace a Nicola Rossi che ha scritto: con questa sinistra il riformismo è «un sogno già finito».
«Partiamo da un dato arcinoto: nella Prima repubblica il Pci non poteva avere un vero progetto riformista perché, anche se avesse preso il 40 per cento dei voti, non poteva avere un progetto di governo. Per questo non me la prendo con la classe dirigente comunista di allora. Era un altro mondo. Il Pds, invece, aveva il dovere di compiere un vero “strappo” riformista, invece ci si è fermati al dibattito sulla socialdemocrazia, altro prodotto - da superare - del Novecento: come al solito, si arriva sempre in ritardo agli appuntamenti con la storia. Difatti Occhetto, quando s’arrischiava a pronunciare il termine, parlava di “riformismo forte”, una formula che messa così non vuol dire nulla».
Oggi?
«Lo stesso. La sinistra sta indietro rispetto alla sfida dell’innovazione, del “liberalismo”».
Proprio oggi che dopo l’11 settembre definirsi liberali non va più di moda lei che fa, ritira fuori il liberalismo? Passatista.
«No, e per una ragione molto semplice: l’Italia non ha mai fatto la rivoluzione liberale. Nemmeno Berlusconi, e questa resta la sua grande colpa. Abbiamo bisogno di un ba-gno-di-li-be-ra-lis-mo, capisce? È il tema dei temi: pensare di saltare a piè pari una fase di rivoluzione liberale per approdare direttamente al neocolbertismo - come vorrebbe Tremonti e non solo lui - è una follia. Abbiamo bisogno di piazzare bombe sotto le corporazioni che intossicano la vita politica e la vita economica».
Parliamo di miti inossidabili - e insopportabili - della sinistra. Tipo il mito della «società civile» coltissima e cachemirissima. Anche lei ne scrive malissimo.
«Quando la “società civile”, dato naturale, ha bisogno di autodefinirsi è perché vuole diventare “società politica”. Prenda i girotondi. Sono i cascami di un modo ideologico di approccio alla realtà fondato sulla distinzione tra Bene e Male. Seconde file della politica che vogliono sostituire i leader, tutto qua. Ragazzi poco cresciuti».
Che però si tengono tutta la conseguenza del mito: la puzza sotto il naso. Una bella pagina del suo libro riporta un giudizio espresso in automobile, si presume da qualche suo famiglio ma non si dice, verso dei poveri militanti di Alleanza nazionale: «Guarda come sono brutti». Una è una vaiassa, un altro ha la faccia da camorrista. Con la sua postilla: «Non ho forza e voglia di commentare i già noti complessi di superiorità morale ed etica, ed ora anche estetica!, della sinistra». Commentiamo ora.
«L’egemonia culturale esercitata dalla sinistra nella seconda metà del Novecento, oggi in crisi, ha prodotto tre conseguenze. Prima conseguenza, il conservatorismo e la nostalgia dei bei tempi andati, delle grandi conquiste sociali. Seconda: tutto ciò che non rientra nel cono di luce della sinistra è intrinsecamente arretrato, buzzurro, kitsch. Impresentabile. Terza conseguenza: una volta che la promessa contenuta nel “sogno” non è stata mantenuta, sono rimasti in piedi gli assetti del potere culturale, cosicché oggi la sinistra detiene un potere culturale senza radici. Vivi sotto la campana di vetro dell’ideologia, hai ragione per diritto divino. Accanto a questo, la destra negli ultimi quindici anni s’è frantumata i coglioni da sola, non mettendo in campo nemmeno uno straccio di progetto culturale alternativo».
Parliamo del suo vicino di casa Silvio Berlusconi. Che cosa la sinistra avrebbe dovuto imparare da lui, e non ha imparato? E di quale caratteristica del berlusconismo la sinistra è rimasta «infettata»?
«In positivo, di Berlusconi la sinistra avrebbe dovuto importare la modernità, l’ubiquità, la trasversalità, il non essere legato a nessun mondo strutturato della società. Il Cavaliere era e rimane un uomo della televisione generalista che, per definizione, parla a tutti. La sinistra, al contrario, divide ancora la società in pezzi: i ceti medi e quelli bassi, i dipendenti e i liberi professionisti. Tutte minchiate. In negativo, del berlusconismo la sinistra ha copiato maldestramente il peggio delle tecniche comunicative. Ma il marketing di Berlusconi ha senso solo se il messaggio che trasmette è trasversale e obliquo. Sennò è un pasticcio. Ritorniamo al punto di partenza. Per me la sinistra, quella vera, è il regno della libertà, una bandiera della quale in Italia s’è impossessato proprio Berlusconi. Sgualcendola e basta.

Ecco perché abbiamo l’urgente necessità di una rivoluzione liberale: la frattura politica principale, oggi, è tra statalismo e libertà. Chi saprà interpretarla fino in fondo avrà il mio appoggio incondizionato».
(1. Continua)

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