Roma. Si contano sulle dita delle mani. In più di ottanta edizioni gli Oscar al migliore attore protagonista andati a interpreti non statunitensi sono una manciata, anche se non misera visti i nomi. Ma certo si capisce lontano un miglio che l'Academy premia un attore «straniero» solo quando è praticamente costretta a farlo. È il caso dellaustraliano Peter Finch che nel 1977 vinse con Quinto potere anche perché nel frattempo era passato a miglior vita, una statuetta postuma ma certamente meritata. Per dire però, nella cinquina figurava, oltre al nostro Giancarlo Giannini di Pasqualino Settebellezze, anche un certo Robert De Niro protagonista di Taxi Driver.
Così, negli ultimi anni, solo il britannico Daniel Day-Lewis ha avuto lonore di stringere nelle mani ben due statuette, nel 2008 con Il petroliere e nel 1990 con Il mio piede sinistro. Trasformando così il Regno Unito nella seconda patria dei migliori interpreti. Un dato che potrebbe portare fortuna a Colin Firth nato nello Hampshire e superfavorito di questa edizione. Sì perché, a parte la memorabile statuetta del 1999 al nostro Roberto Benigni per La vita è bella, sono stati solo gli attori britannici a ricevere più Oscar. Certo per ritrovarli bisogna andare molto indietro negli anni: Anthony Hopkins nel 1992 con Il silenzio degli innocenti, Ben Kingsley nel 1983 con Gandhi, nel 1967 Paul Scofield per Un uomo per tutte le stagioni, nel 1965 Rex Harrison per My Fair Lady e poi David Niven, Alec Guinness, Lawrence Olivier, Ronald Colman fino agli albori degli Oscar con Victor McLaglen e a George Arliss, primo attore di Sua Maestà a vincere negli States nel 1930. E se chi non mastica la lingua anglosassone è quasi automaticamente escluso dagli Oscar, c'è solo il continente australiano oltre a quello europeo che con i suoi attori è riuscito ad avere accesso alla magica notte delle stelle. Così Russell Crowe, nei panni peraltro di un generale romano, ha vinto nel 2001 con Il gladiatore e Geoffrey Rush nel 1997 con Shine.
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