Politica

Il colosso che mantiene 18 milioni di italiani

da Milano

Un anziano che spinge faticosamente la bici su un sentiero di montagna in salita. «È stata dura, ma ce l’ho fatta» commenta. Si apre su questo fotogramma il filmato che Marco e Gillo Pontecorvo, registi di fama e talento, hanno girato per raccontare agli italiani che cos’è l’Inps, l’ente che mantiene 18 milioni di pensionati. E, via via, su quei fotogrammi si affollano la neo-mamma, il dipendente che ha perso il lavoro ma ne ha trovato un altro grazie a un corso di riqualificazione, l’imprenditore che ha assunto due immigrati. Storie di oggi, problemi di sempre. Eppure l’Istituto nazionale di previdenza sociale affonda le sue radici in un passato lontano, lontanissimo. E accompagna la storia del lavoro nello Stivale. Quando i nodi al pettine erano diversi dai giorni nostri, ma erano pur sempre nodi.
Chi lo governa. L’Inps è retto da un presidente che lo rappresenta, un consiglio di amministrazione (8 membri) che lo gestisce, un consiglio di indirizzo e vigilanza (24 membri) che fissa gli obiettivi, un direttore generale e un collegio dei sindaci che ha funzioni di controllo. Ora, in questo carrozzone perennemente al verde i sindacati vogliono metterci il becco. Erano usciti in piena Tangentopoli, adesso meditano il ritorno nella stanza dei bottoni.
Le origini. Era ancora il XIX secolo, ma stava finendo. Correva il 1898 quando la previdenza sociale mosse i primi passi. Lo fece con una Cassa per l’invalidità e la vecchiaia degli operai: era un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato. Vent’anni dopo conta 700mila iscritti e 20mila pensionati, ma l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori.
Il ventennio. L’anno del grande passaggio è il 1933: la Cassa diventa Inps. Alla vigilia della guerra, vengono istituite integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o a orario ridotto. Il limite di età per andare in pensione scende a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.
Dal dopoguerra al ’68. È il 1952 l’anno più importante: nasce la «Minima». E cinque anni dopo vedono la luce tre diverse Casse per coltivatori diretti, mezzadri, artigiani e commercianti. Ma è con gli anni della rivolta giovanile che comincia ad avvertirsi il vento del cambiamento: il sistema retributivo, basato sulle ultime retribuzioni percepite, sostituisce quello contributivo, costruito sulle effettive trattenute dallo stipendio del dipendente, nel ricalcolo del vitalizio. Ma sono anche i mesi in cui nasce la pensione sociale. Ai più bisognosi con oltre 65 anni sulla carta d’identità viene riconosciuto un assegno che soddisfi le necessità essenziali. E non solo. Vengono varate anche misure di sostegno contro la disoccupazione come la Cassa integrazione.
Gli anni Ottanta. Cambia il lavoro e cambia il mercato. Ma cambia anche la sanità. Viene istituito il Servizio sanitario nazionale e sulle spalle dell’Inps piovono altre mansioni: riscuotere i contributi di malattia e pagare le relative indennità, che oggi sono più di 368mila in tutta Italia. Una riforma investe anche il ramo invalidità, ma la vera svolta avviene nel 1989 con la legge di ristrutturazione che trasforma l’Istituto in Azienda. Ma i conti non tornano e gli anni Novanta segnano continui correttivi.
Gli anni Novanta. Le riforme si accavallano: prima il calcolo degli assegni che l’Inps staccherà in rapporto al reddito del lavoratore, poi l’innalzamento dell’età pensionabile che il Duce aveva abbassato: 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. Poi arriva la previdenza complementare e la legge Dini che vara la flessibilità dell’età per l’uscita dal lavoro e il ricalcolo dell’assegno sui contributi forniti nell’arco dell’intera vita lavorativa. Infine tocca a collaboratori e venditori porta a porta entrare nell’Inps.

È una novità.

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