Commento Il caso Siniscalco insegna alla Lega quello che la politica non deve fare

Breve riassunto. Dopo le elezioni regionali, Bossi dice: «Ci prenderemo le banche del nord». Segue la vicenda Siniscalco: l’ex ministro viene prima candidato al vertice di Intesa dalla Compagnia di Sanpaolo; poi è costretto a ritirarsi per le divisioni interne alla stessa Compagnia. Che resta senza un candidato forte alla guida della maggiore banca italiana, di cui è il primo azionista con il 10%. Ebbene, cosa insegna questa storiella? Sicuramente una cosa: alla Lega, che ha rilanciato prepotentemente il tema dell’ingerenza della politica nelle banche, insegna cosa non bisogna fare. Cioè quello che, maldestramente, hanno combinato a Torino in questi giorni il sindaco, Sergio Chiamparino, e il presidente della Compagnia di Sanpaolo, Angelo Benessia. E forse il neo governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota, già l’ha capito. Non a caso è difficile sentire sue dichiarazioni in merito, in questi giorni.
Dalla vicenda, invece, emerge come un gigante il presidente dell’altra importante fondazione azionista di Intesa, anche se con la metà delle azioni della Compagnia, solo il 5%: Giuseppe Guzzetti. La sua opposizione a Siniscalco è stata giustamente spesa come un fuoco di sbarramento all’ingresso della politica in Intesa. Guzzetti, l’ex democristiano presidente della Regione Lombardia, politico esperto e navigato se ce n’è uno, in questa storia diventa il paladino dell’indipendenza delle banche. Com’è possibile? Semplicemente perché conosce sia gli statuti, sia la politica. I primi indicano come e da chi debbano essere fatte le nomine nell’ente e nelle aziende, ed escludono il vincolo di mandato: chi viene indicato come amministratore, poi agisce secondo coscienza. Mentre la politica, praticata non con arroganza, ma con abile tessitura di trame, prevede che gli accordi si facciano nei luoghi deputati, garantendo equilibri e controllando i consensi e, soprattutto, che non se ne parli. Su questa base si scelgono, successivamente, i candidati. Da Torino invece è arrivata la peggiore lezione possibile su come la società civile, e dunque anche le cariche elettive, si possano arrogare il diritto di scegliere gli uomini degli enti e delle banche. Il sindaco di Torino ritiene di poter nominare il presidente della Compagnia. E poi che questi nomini quello della banca in base alle sue indicazioni. Ma non è così. La prima nomina spetta al consiglio generale. Che, in passato (le presidenze Castellino e Grande Stevens) ha scelto l’uomo del sindaco anche perché si trattava di grandi personalità intorno alle quali era stato costruito il consenso.

Poi, in ogni caso, è la Compagnia che deve indicare i suoi uomini per il consiglio di sorveglianza. E nel sistema «duale» la catena finisce lì. Non si può pretendere di saltare questi passaggi, come ha fatto capire anche ieri Giovanni Bazoli. È un errore tecnico che diventa, politicamente, uno strafalcione.

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