Il commento Macché sciopero, il cinema impari dalla Fiat

Lo sciopero dovrebbe essere una sospensione dal lavoro con la quale i lavoratori fanno valere le proprie richieste di fronte all’impresa. A seguito dell’espansione dello Stato, però, un gran numero di scioperi sono ora indetti da specifiche corporazioni al fine di ottenere aiuti pubblici. Non si chiede una ridefinizione dei rapporti contrattuali: quello che si vuole, molto più semplicemente, sono i soldi degli altri. Solo muovendo da qui si comprende quanto è avvenuto ieri per iniziativa dei sindacati dello spettacolo, i quali hanno protestato contro i tagli governativi che riguardano il cinema: senza peraltro ottenere la massiccia adesione del settore. E se lo sciopero è fallito, è perché le ragioni su cui poggiava sono davvero deboli.
Come mostra Filippo Cavazzoni in uno studio realizzato per l’Istituto Bruno Leoni, nei primi dieci mesi del 2010 l’industria cinematografica italiana ha conseguito ottimi risultati. Si è avuta una crescita dei biglietti venduti (+ 16,6%) e soprattutto degli incassi (+ 25,4%). E va sottolineato come questo sia avvenuto «nonostante» la riduzione dei contributi statali. Ma è corretto dire «nonostante»? In realtà, vi sono argomenti solidi teorici e molte testimonianze empiriche sul fatto che l’assistenzialismo produce disastri. Quando si tassano operai, impiegati e medici per aiutare attori, registi e sceneggiatori, si ottengono una progressiva statizzazione e una crescente burocratizzazione. Non a caso nei regimi totalitari il cinema è sostenuto dal denaro pubblico (con risultati artistici assai modesti), mentre esso cammina sulle proprie gambe in quei Paesi, come gli Stati Uniti, in cui è un’impresa al pari delle altre.
Un tempo era lo stesso da noi, e non a caso negli anni ’50 e ’60 il cinema italiano si è imposto a livello globale. Adesso, invece, circa una trentina di film all’anno riceve assegni cospicui, ma il livello è quasi sempre mediocre. Scegliendo più o meno a caso, nel 2006 sono andati 2,1 milioni a «La giusta distanza» di Carlo Mazzacurati, nel 2007 altri 1,7 milioni per «Il mattino ha l’oro in bocca» di Francesco Patierno e nel 2008, infine, 1,6 milioni al «Barbarossa» di Renzo Martinelli. Cifre analogamente cospicue hanno ricevuto molte altre pellicole analogamente ignorate dal pubblico. Per giunta, ormai di soldi non ce n’è proprio. Se ragioni di bilancio obbligano a ridurre gli aiuti di Stato al settore (a registi e attori è giunta notizia di quanto sta succedendo in Grecia, Irlanda e Portogallo?), è possibile ricavarne un beneficio per i conti pubblici e, al tempo stesso, affrancare il cinema da interferenze politiche.
In questo senso è bene che l’unica forma di sostegno dell’esecutivo sia quella delle agevolazioni fiscali. Invece che distribuire fondi in modo arbitrario, è più sensato ridurre il prelievo asfissiante che ostacola la crescita della «settima arte». In tal modo, ne beneficerà chi soddisfa davvero il pubblico. Bisogna d’altra parte avere il coraggio di ammettere che il Fus (Fondo unico per lo spettacolo) è qualcosa di anacronistico: incompatibile con una società liberale. I tentativi compiuti finora per ridurne le dimensioni vanno dunque incoraggiati, dato che il nostro cinema - ma analogo discorso andrebbe fatto per gli altri settori dello spettacolo - avrebbero solo da guadagnare da una maggiore concorrenza.

Vale per il cinema il medesimo discorso che viene fatto per la Fiat, la quale ha cominciato a ristrutturarsi quando da un lato ha visto diminuire l’entità dei favori che riceveva dallo Stato italiano e, al tempo stesso, ha compreso la necessità di proiettarsi sul mercato internazionale.
Talvolta le crisi obbligano a fare i conti con la realtà e aiutano a ripartire. Sarebbe bene che il cinema cogliesse in termini positivi tale occasione.

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