IL COMPLESSO DEI MIGLIORI

Confesso di non capire l'improvvisa sorpresa per «il processo pubblico» - così è stato definito dai giornali - intentato a Claudio Petruccioli e a Giovanni Floris, per la polemica di cui è stato bersaglio Giuseppe Caldarola o per «le liste di proscrizione» stilate da esponenti dell'Unione con i nomi di manager o di politici pentiti da accogliere o da punire. Non c'è nulla di nuovo. Le esibizioni della «sinistra perfetta» sono come un disco rotto. Si ripropongono in continuazione in forme diverse - ora su una rivista, ora su un giornale, ora in un girotondo, ora in uno sciopero generale - ma sempre con lo stesso bersaglio: ciò che è considerato berlusconismo e ciò che ne è considerato contaminato.
Il «complesso dei migliori» non è un fenomeno esploso nel 2005, è una consolidata presunzione, un cocktail formato da tanti ingredienti: c'è una buona dose di Sessantottismo attempato, c'è una rilevante quantità di giustizialismo, il tutto condito con un pizzico della «diversità» invocata dal vecchio Pci. Il sociologo Luca Ricolfi, che alla sinistra appartiene, ha avuto tutto il tempo di studiarlo e di pubblicare di recente un libro dal titolo «Perché siamo antipatici». Ne cito un giudizio, pur sapendo che la considerazione di un «nemico» può creargli qualche problema: «Lo scontro di civiltà, tenacemente negato quando a prospettarlo sono i personaggi come il politologo Huntington o la giornalista-scrittrice Oriana Fallaci, riemerge prepotentemente per descrivere nientemeno che la sfida mortale in atto in Italia. Scontro di civiltà. O meglio scontro fra la civiltà e la barbarie». In cui la civiltà è appunto la «sinistra perfetta» e la barbarie è non solo la destra ma anche quella sinistra che non è «dura e pura» e che, anzi, è collaborazionista. Così ora il barbaro è Claudio Petruccioli. Qualche mese fa lo era Francesco Rutelli perché polemizzava con Prodi o perché si asteneva dal referendum sulla procreazione assistita. Era toccato anche a Piero Fassino, che aveva riconosciuto a George W. Bush il merito di aver rovesciato Saddam Hussein. Per non parlare di Sergio Cofferati, accusato di governare Bologna come un berlusconiano. Senza dimenticare Antonio Polito e il suo «Riformista». E l'elenco è lungo.
Dunque, perché sorprendersi di un'intolleranza che è nel Dna di una cultura politica che ha come pratica il linciaggio morale e che ha un'idea della propria superiorità tale da sconfinare nel razzismo? Quel che sorprende è invece la mancata reazione, tranne poche eccezioni, dell'establishment della sinistra, è la rassegnazione con cui leader e partiti hanno subìto il lento montare dell'egemonia dei lanciatori di fatwa, è la tentazione di usare gli stessi metodi. In altre parole, sorprende che in un confronto politico prevalga una logica da Fronte di liberazione, grazie alla quale «i moderati» sono contenti del lavoro sporco compiuto dagli estremisti e in cui si equivalgono le liste di proscrizione, che riguardino Petruccioli o altri, poco importa.
Non c'è, nel mondo, una sinistra simile. Da ultimo, in Germania, Schröder è stato capace di affrontare anche la gauche di Lafontaine e di fissare le distanze fra un'identità riformista e una ventata antagonista. Al contrario, l'Unione - l'antipatica Unione, parola di Ricolfi - resta a metà del guado fra la pratica dell'anatema e la cultura di governo.

Segno che il «complesso di superiorità» non affligge solo chi istruisce processi, ma è molto più diffuso, in uno «zoccolo duro» costantemente eccitato a sentirsi «l'Italia migliore», e in una leadership che non ha ancora capito perché, dal 1994, non è padrona incontrastata del potere.

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