Comunque i simboli vanno rispettati

Il gesto di Umberto Bossi - che si commenta da solo, sia sul piano del gusto sia su quello politico - ha l’effetto paradossale di aumentare la simpatia della maggior parte degli italiani verso un inno oggettivamente bolso, retorico e che sarebbe ora di cambiare. Del resto è il destino dei simboli: nascono per onorare ciò che rappresentano e per essere onorati, ma di conseguenza subiscono il disprezzo di chi non ama il loro significato.
Infatti l’atteggiamento generale verso i simboli cambia con il mutare delle fasi storiche. Dal dopoguerra a oggi, per esempio, la percezione dell’inno nazionale è mutata almeno tre volte. Fino al ’68 faceva gonfiare i cuori di una nazione e di un popolo usciti dalla guerra - e dalla guerra civile - come simbolo di unione e fratellanza. L’inno di Mameli, per quanto antico, sembrava nuovissimo perché sostituiva la marcia reale; ovvero rappresentava una giovane Repubblica nata dalle ceneri di una monarchia che aveva deluso e anche tradito gli italiani.
Il ’68, con la sua furia iconoclasta, internazionalista e antitradizionalista lo fece decadere, anche nella percezione dei non sessantottini, a simbolico retorico di un patriottismo che non aveva più ragione di essere. La terza fase, la rinascita dell’inno, viene attribuita di volta in volta a motivi di nazionalismo calcistico o alle iniziative dell’allora presidente Ciampi, ma credo che il motivo profondo si debba a due spinte contrastanti: la minaccia all’identità nazionale proveniente sia dall’esterno (invadenza sempre maggiore dell’Unione europea) sia dall’interno, ovvero certi atteggiamenti estremistici della Lega che, non soddisfatta del federalismo, a volte sembra voler minare addirittura l’unità nazionale.
Il simbolo decade, invece, quando da segno di unione passa a rappresentare una parte. È il caso di Garibaldi, che fu sinonimo di unità e di passione patriottica fino a quando del suo nome e del suo volto non si impossessò una parte politica: prima con le omonime brigate partigiane, poi con il fronte popolare delle sinistre, e nel dopoguerra. La Democrazia cristiana ebbe la trovata - geniale - di rovesciare quel simbolo mostrando che nascondeva la faccia di Stalin: da allora l’eroe dei due mondi è quasi scomparso dall’iconografia patriottico-politica.
Il tricolore ha una storia ancora diversa. Benché mondato dello stemma sabaudo, nel dopoguerra gli italiani ne avevano abbastanza della retorica patriottarda abusata dal fascismo. Tanto che la bandiera compariva solo nei simboli della destra, quello dei liberali e - sotto forma di fiamma - nello stemma del Movimento sociale italiano. Era significativo che il Pci, nel proprio simbolo, lasciasse spuntare appena un lembo di tricolore sotto la bandiera rossa con falce e martello: l’Internazionale comunista sovrastava le patrie e le annullava. Fu Berlusconi - interpretando un mutamento storico - a sdoganare il tricolore per un partito che non a caso si chiamava Forza Italia; lo sdoganò a tal punto che oggi è tricolore anche il simbolo del partito avversario, il Pd.

Insomma, i simboli risentono dei momenti storici, come le azioni dell’andamento della Borsa. Ma rappresentano dei valori per gran parte della popolazione. E anche chi non ci crede dovrebbe, per questo, rispettarli.
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