In confessionale con Ada Negri

«Nata uomo, avrei voluto essere parroco di campagna o medico condotto. Le invidio la Sua missione: e la religiosa oscurità in cui vive. Sua sorella in Cristo. Ada Negri». Fu la rosa tenera e forte delle nostre nonne e madri, e nella loro volontà ancora romantiche ma già battagliere inferse profumo e spina, quella che la cultura deve affondare affinché nasca un frutto, come quando per fruttificare deve essere inciso il sicomoro.
Sulla nostra pelle, invece, la poetessa nata a Lodi il 3 febbraio 1870 e morta a Milano l’11 gennaio 1945 scende come la linfa sconosciuta di un tronco lontano, isolato. Così ci appare nelle trenta lettere e in alcune cartoline che la «portinaretta» dalle esili gambe da capriolo (così ci piace definirla perché trascorse la sua infanzia in una portineria) inviò dal 10 giugno 1930 al 2 gennaio del ’33 a un sacerdote veronese, don Carmelo Martini, un sosia perfetto di don Camillo: bicicletta, naso storto e tonaca al vento, detentore del primo abbonamento della vecchia rivista del fascio L’Asse di Bastoni.
«È mai stato a Lodi, reverendo? C’è una colonna (la seconda a destra, mi sembra), dove una meravigliosa Madonna è frescata. Porta un manto d’ermellino come un’imperatrice: e vi nasconde il Bambino. Era la mia Madonna». La corrispondenza, di penombra malinconica, solitaria, scava zolle scure in un’anima di donna, più conosciuta per la sua amicizia con la compagine socialista di Filippo Turati, Benito Mussolini, Anna Kuliscioff, di cui si sentiva sorella ideale, che per la parte intima e finale della sua esistenza, quando iniziò una ricerca interiore, religiosa, presa da una sorta di «missione» perché la vita fosse adoperata «per il bene. Ma quale bene? A Dio, Lei mi scrive, padre, non dispiace di entrare per ultimo. Allora, mi aiuterà Dio?».
Quasi un controsenso se si pensa che ancora oggi si vedono le ragioni dell’assegnazione del Nobel alla Deledda, piuttosto che alla «portinaretta» di Lodi, nelle pendenze di alcuni suoi scritti non proprio orientate verso la Chiesa. «Il premio Nobel fu aggiudicato a Grazia Deledda con piena giustizia. Grazia Deledda è una delle più grandi romanziere che il mondo abbia avuto. È anche tradottissima in svedese e in tutte le lingue» ammette con disarmante semplicità l’autrice di volumi un tempo molto popolari come Stella mattutina (1921), alla quale fu invece conferito l’onore di essere la prima donna dell’Accademia d’Italia, nel 1940.
«Vorrei vangare la terra di giorno: la sera, andare a benedizione: la notte, dormire. E non sapere più né leggere, né scrivere». E raccogliere violette, ritrovare «le spine di Cristo» nude, passeggiare sotto il glicine. Invece iniziò a scrivere a nove anni, con una «poesia in sciolti, intitolata nientemeno che “Maria la Morta”. Nove anni! E le sillabe dei versi erano esattissime», anche se riconosce come sua prima lirica, la vera, La mano nell’ingranaggio, e lo specifica con forza lamentandosi che sia i giornali sia la critica si vantavano di conoscere tutto di lei, quando invece sottolinea in una lettera del 13 luglio 1931: «Nulla di veramente preciso si sa della mia vita intima. Tutto è falsato».
Ricorda il disastroso matrimonio con Giovanni Garlanda, mai amato: «un martirio». Distingue le due donne protagoniste di Esilio e del Libro di Mara, rimarcando le loro differenze, dovute al fatto che «noi non siamo sempre gli stessi. La vita non è fatta di un solo amore». E appare così di questa pianta protesa all’armonia, l’ondeggiare «in uno stato di perenne contrasto - di tragico contrasto - fra il desiderio dell’abbandono in Dio e la tirannia della vita materiale con tutte le sue grame necessità». Unica vera terra in cui si sentiva ferma? I solchi dei versi, «perché il compito della poesia è di fissare ciò che è passeggero».
Baciata dal consenso popolare, ma spesso colpita da una critica, come quella uscita «sulla rivista mensile romana Il Saggiatore, numero di marzo del ’32, in cui l’accusa più mite è che sono un’attrice da sobborgo», che la faceva «camminare sulle punte dei coltelli, come i fakiri», Ada Negri arriva a noi a 140 anni dalla morte nella confessione di una donna contemporanea che scrive «per me stessa, solo per me stessa»; una rosa, da cui tutte le farfalle della vita «escono confuse», direbbe Rilke, confuse dalla necessità di una scrittura in quanto unica pietra a cui una pianta indomita può aggrapparsi; confuse tra la ricerca di una semplice vita quotidiana in cui essere madre e nonna (frequenti i suoi riferimenti ai nipotini Donata e Guido); confuse tra la ricerca di un amore senza confini e quella di un Dio spesso troppo oltre confine.
Il piccolo epistolario ci arriva da un musicista, il violinista veronese Roberto Muttoni, e guarda il caso il più forte ricordo di Ada Negri oggi è nella musica, che spesso mette in note ancora quei versi sui comodini delle nonne, ma non più sui nostri. Era bambino, Muttoni, quando don Carmelo Martini mise nelle mani di suo padre l’epistolario tenuto segreto per anni, perché allora chi conosceva questa corrispondenza tra una poetessa e un sacerdote, la definiva «scomoda». Eppure ricorda una parola del curato che spinse la scrittrice a confidarsi con lui: aborto.

Ci fu nella vita della «portinaretta» di Lodi - nella biblioteca di Lodi molte sono le lettere inedite di Ada Negri che aspettano di venire alla luce - l’interruzione di una gravidanza, che acuì l’indole saturnina di una donna provata dal dolore, portandola verso la solitudine in cui finì la sua vita nel gennaio del 1945? Solo la memoria di un musicista bambino rimembra questa parola, «aborto», e quel fiore mai nato oggi ci fa riscrivere ancora sui frutti di una pianta che sul classico ermo colle delle lettere spinge sempre lo sguardo verso l’inconcepibile, minuscolo infinito di un’anima.

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