Rinviando a giudizio Oriana Fallaci per il suo libro «La rabbia e l'orgoglio», accusato di «vilipendio alla religione», islamica in questo caso, il Gip di Bergamo prefigura un «reato di opinione» che se non è ancora cancellato dal Codice penale lo è certo dalla coscienza giuridica di un Paese democratico come il nostro. Ma è anche, o rischia di essere, qualcosa di più. Può essere, certo al di là delle intenzioni del magistrato, una manifestazione di imprudenza perché ha o può avere l'effetto di segnalare a eventuali malintenzionati, e Dio sa se (...)
(...) ne mancano, un obbiettivo contro il quale rivolgere le loro cattive intenzioni. Rischia insomma di innescare una fatwa che nella cultura islamica coincide con una sentenza di condanna. Non è una pura ipotesi. La Fallaci, e non solo in Italia, vive protetta da adeguata scorta, tante sono le minacce che la inseguono per le posizioni assunte nei confronti del terrorismo internazionale, degli autori e ancor più della cultura che ne ispira le gesta.
Andrea Tornielli ricorda opportunamente che uno degli ultimi libri della Fallaci ispirò a una associazione islamica francese la richiesta del ritiro dalle librerie. La risposta del tribunale francese, a stretto giro di posta, fu in effetti quella che doveva essere: in Francia esiste la libertà d'opinione, e la libertà di stampa che ne è espressione diretta. Il sequestro di un libro è certo una pretesa grave, ma l'apertura di un procedimento giudiziario contro il suo autore, dal punto di vista delle conseguenze, non è assolutamente da meno. La decisione del giudice di Bergamo appare tanto più singolare perché eleva a protagonista un personaggio a suo modo pittoresco, quell'Adel Smith che rappresenta solo se stesso, e al quale però si concesse a suo tempo di mettere la Giustizia a rumore per aver chiesto l'eliminazione del crocifisso da una scuola solo perché frequentata dai suoi figli. In quella occasione, la pretesa venne sconfessata dalle associazioni islamiche, e va aggiunto che queste furono assai più sollecite a dire la loro della magistratura.
Se non è dubbio il principio che i reati di opinione non debbano abitare i nostri tribunali, non si possono neppure trascurare i rischi che il fanatismo islamico, spinto oltre certi limiti, fa correre al nostro Paese. E la richiesta del Gip di Bergamo ignora bellamente questi rischi. Qualche tempo fa si aprì nel mondo della Giustizia un dibattito dopo la scarcerazione di cittadini nord-africani accusati di attività terroristica, sulla inadeguatezza delle leggi che non distinguono fra il sostegno al terrorismo vero e proprio e quello a favore di una sana guerriglia nazionale, come sarebbe nel caso dell'Irak. E stupisce davvero che queste idee trovino i loro sostenitori proprio in Italia ove il principio della interpretazione delle norme, e di una interpretazione progressiva e cioè rivolta al futuro, è stata rivendicata negli ultimi decenni da settori non marginali della magistratura. Eppure, la sentenza di liberazione degli accusati nord-africani si impegnò, in quella occasione, in una disamina ardita tendente a distinguere fra raccolta di fondi e di adesioni in favore del terrorismo, da condannare, e aiuti consimili a favore di un'azione di guerriglia, da assolvere.
Non è del resto la prima volta che ci si chiede se in Italia si sia raggiunta una adeguata coscienza del pericolo rappresentato non già dalla presenza di comunità islamiche che vivono pacificamente del loro lavoro, ma di enclaves composte da gruppi e da individui che ispirandosi a idee e a pratiche ripudiate dalla gran parte degli immigrati di origine islamica costituiscono un pericolo oggettivo per il nostro Paese. Dovrebbero pur dire qualcosa i legami, acclarati, fra le cellule legate al terrorismo esistenti in Italia e gli autori della strage di Madrid di qualche anno fa. Nessuno suggerisce ai magistrati, dinanzi a tali precedenti, linee di condotta men che garantistiche. Ma, per tornare al caso della Fallaci, la presenza di un fanatismo religioso come quello che ispira tanti sconsiderati avrebbe dovuto suggerire al Gip di Bergamo, come del resto aveva suggerito all'ufficio del Pubblico ministero, un atteggiamento più cauto, oltreché più rispettoso della libertà di pensiero di una scrittrice come la Fallaci.
In un articolo sul Corriere della Sera, il vice-direttore Pierluigi Battista si rammarica che a protestare per la richiesta di rinvio a giudizio della Fallaci non siano coloro che, dissentendo da esso, sanno però distinguere un'opinione da un reato.
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