Ieri a Roma, in una giornata uggiosa e falsamente primaverile, si è celebrato un mesto rito forse funebre della Cgil, officiante il suo segretario generale, presenti e infastidite, alcune migliaia di lavoratori che poi se ne sono andati mesti e spesso furiosi. È stata una pena. L’omelia di Epifani aveva un tema metafisico: Manifestazione contro la crisi. Qualcuno aveva proposto di manifestare contro l’antropofagia, e altri contro il maltempo. La crisi come oggetto generico di manifestazione era un’idea, direbbe D’Alema, ultronea, e dunque alla fine ha vinto. Epifani ha cercato di evocare il fantasma dell’unità del popolo dolente e per questo ha pronunciato il nome «cult» di Berlusconi, che fra quella modesta marea ha provocato un muggito ostile. Soddisfatto di questo risultato politico, Epifani ha detto che bisognava aprire un tavolo. Ora si sa che aprire un tavolo non è sempre cosa facile perché occorrono tavoli speciali con prolunga o quelli tagliati nel mezzo. Epifani si è incaponito sull’apertura del tavolo senza fornire particolari e ha detto che occorreva «affrontare in modo serio, ordinato, coerente, la crisi». Alcuni dei presenti volevano a tutti i costi sapere perché non si dovesse viceversa usare un metodo allegro, caotico e incoerente, sostenendo che almeno sarebbe stato più creativo. Ma Epifani è stato fermo nel suo proposito. Solo allora tutti si sono resi conto che per un difetto dell’organizzazione nessuno aveva portato il tavolo.
Incurante, Epifani ha allora detto che «questa richiesta non è una sfida ma una richiesta per verificare di avere un tavolo con un vero confronto». C’è stata un’ondata di panico nel Circo Massimo, perché era chiaro che un tavolo da qualche parte doveva pur esistere, ma tutti si chiedevano anche come facesse un tale mobile ad avere sulla sua superficie un vero confronto. C’è stato del subbuglio che per qualche attimo ha fatto fremere i reparti antisommossa che bordeggiavano l’area campestre della riunione.
I più prudenti fra i manifestanti hanno a questo punto cominciato ad abbandonare la mesta cerimonia sostenendo che volevano visitare alcune pasticcerie del centro. Epifani ha capito che nessuno aveva trovato un tavolo e allora ha cercato di cambiare discorso dicendo che «se la ricchezza del Paese scenderà davvero del 4 per cento, questa caduta non potrà essere affrontata né con battute né con misure non all’altezza». Questa frase provocava costernazione. Molti avevano equivocato «con battute» con «combattute» e non riuscivano a vedere il nesso. Quelli che lo vedevano, non capivano.
Un brusio si è sollevato perché molti dicevano che se si fosse trovato il tavolo tutto sarebbe stato più chiaro, ma il tavolo non c’era e gli operai rumoreggiavano: «Questo ci ha chiamato qui per prenderci per i fondelli» dicevano alcuni che ho udito con le mie orecchie di ritorno dalla funzione, con le bandiere abbassate su ponte Sant’Angelo. Epifani ha pronunciato anche una indecifrabile profezia, o forse era una diagnosi, o una prognosi, o un nonsense. Ha detto: «Lo dico col cuore in mano, ma dietro queste cifre ci sono milioni di persone e molte imprese». E fin qui si trattava di espressioni ragionevoli, ma poi la cupezza lo ha spinto verso l’enigma: «Un calo di queste dimensioni non vuol dire tornare a sei-sette anni fa, ma per molti è un ritorno nel vuoto». L’idea che gli operai provenissero dal vuoto e che in quella dimensione ignota e senza peso potessero tornare, ha provocato un brivido in quasi tutte le schiene dei pur mesti convenuti.
Imbarazzato, Epifani ha pensato che forse soltanto evocando l’odiato Berlusconi le masse potessero scuotersi e galvanizzarsi. E così ne ha evocato lo spirito di Londra, quello spirito che aveva del resto rinvigorito anche la regina Elisabetta Seconda, e ha detto: «Il nostro presidente del Consiglio, prima di partire per Londra…». È stato come quando la soubrette del cabaret faceva la mossa e tutti impazzivano. Così, ieri al Circo Massimo: evocato l’odiato nemico, la piazza si è mestamente ripresa esplodendo in fischi e improperi, per il noto riflesso condizionato. Epifani che era stato poco prima sopraffatto dal pallore, riprendeva colore.
E, rinvigorito dalla sua stessa audacia, ha voluto sorprendere il raduno riparlando del tavolo, al quale ormai nessuno più pensava. E così, dopo aver rivendicato con solitario orgoglio il fatto di aver «scelto di stare in campo anche quando gli altri non ci hanno consentito di fare le battaglie che dovevamo fare insieme», ha con un cenno fatto entrare nell’arena un camioncino dal cui portello posteriore è stato fatto finalmente scendere il mobilio preferito: «Anche Cisl, Uil e Confindustria – ha detto – dovrebbero avere interesse ad un tavolo vero di confronto». Un brusio di ammirazione si è allora levato dal depresso popolo dei convocati. Tutti volevano toccare con mano un tavolo di vero confronto, perché non ne avevano mai visto uno da vicino, ma il servizio d’ordine ha fatto quadrato intorno all’oggetto e ha impedito che le masse si accalcassero intorno alla delicata suppellettile col rischio di scheggiarla.
Mentre la folla indietreggiava frustrata, Epifani continuava: «Bisogna riaffermare il peso del sindacato confederale: la divisione su questi temi riguardanti la condizione dei lavoratori non può essere registrata fino ad oggi perché la crisi ci chiede di stare uniti», ha detto. Una spalla, con cui Epifani era evidentemente d’accordo, ha gridato dal fondo: «E la Confindustria?». Lì ti volevo: Epifani ha sorriso a ventiquattro carati e ha indicato di nuovo il prezioso oggetto: «Anche Confindustria – ha detto scandendo bene le parole – avrebbe interesse ad un tavolo vero di confronto». A quel punto gli addetti hanno ricaricato il tavolo sul camioncino, che è ripartito con rumore di vecchio furgone mentre le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere sul Circo Massimo.
La folla defluiva ormai ordinatamente quando Epifani ha deciso di riattizzare l’attenzione con domande apparentemente senza senso, ma in realtà discretamente folli: «Perché il governo ha stanziato soltanto quattro miliardi?». «E quanti sennò?», ha chiesto una voce. Senza raccogliere la provocazione Epifani continuava, su una prateria ormai umida e prossima alla desertificazione: «Perché non percepisce l’urgenza di serie politiche industriali per l’edilizia e per i servizi pubblici?».
Era ormai solo e si accendevano già le prime fiammelle del vespro quando Epifani si spegneva con una serie di incalzanti domande inutili: «Perché mette in cantiere solo misure faraoniche per i lavori pubblici? E non fa niente per le piccole e medie imprese? Perché non accelera la domanda? Perché non aumenta l’occupazione?».
Un inserviente del Comune di Roma a questo punto lo ha avvertito. «Dottò, dovemo chiude, guardi che se ne so’ annati tutti».
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