Cosa può fare l’America dopo la Georgia

Si tratta, adesso, di fermare il treno. Quello della riscossa neoimperiale russa dopo la prova di forza in Georgia che, per gli errori degli uni e la fermezza decisionista degli altri, si è conclusa, ne convengono tutti, a vantaggio di Mosca, che può ora essere trascinata dalla tentazione di capitalizzare su questo successo e strafare. Ad arrestare, o almeno rallentare, quel convoglio con due capitreno, Vladimir Putin e Dmitry Medvedev, potrà essere, anche questo è scontato, soltanto l’America. Per il bene e per il male l’Europa la sua parte l’ha fatta: meno divisa del solito, abbastanza pronta di riflessi, animata dal protagonismo di Sarkozy, bilanciata dalla prudente solidità di Angela Merkel. Ma il match è tutt’altro che finito e non è affatto da escludere che nel prossimo round gli europei tornino a dividersi, soprattutto fra «nuovi» e «vecchi». Lo si è già visto dalla reazione della Polonia, oscillante fino all’altro giorno fra il sì e il no allo scudo spaziale Usa e ora decisa a dare il suo consenso.
Ma adesso tocca agli Stati Uniti che hanno i mezzi, le informazioni, il potenziale e la volontà per ristabilire un equilibrio incrinato dal conflitto in Georgia oppure creare un equilibrio nuovo, come nei voti e nelle ambizioni di Bush. Un compito pesante perché il presidente non potrà non tener conto di numerose incognite, di spinte in parte contraddittorie che nascono da differenti priorità sia nei rapporti fra le due potenze che furono protagoniste della Guerra Fredda, sia riguardo agli equilibri europei, sia nel coinvolgimento di interessi petroliferi, sia - non va dimenticato - per la vicinanza geostrategica fra la Georgia e l’Iran. Non facilita le scelte della Casa Bianca, naturalmente, la coincidenza con la fase decisiva della campagna elettorale in Usa, che finora mette in imbarazzo soprattutto il candidato democratico Barack Obama, ma che potrà rivelare anche interessi politico-elettorali divergenti tra Bush e l’uomo che i repubblicani hanno scelto come suo successore. Non è la prima volta nelle ultime settimane che John McCain si rivela, in politica estera, più «falco» di quello che dovrebbe essere il suo mentore. Lo confermano le critiche «da destra» di cui Bush è stato bersaglio negli ultimi tempi su diversi temi, dalla sua presenza cospicua alle celebrazioni olimpiche di Pechino a una maggiore «apertura» a interlocutori con cui tradizionalmente l’America non negozia, dalla Corea del Nord alla Palestina.
Il punto focale è ridiventato tuttavia, per la prima volta dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, la Russia. McCain, che finora non ha responsabilità di governo, parla non da oggi il linguaggio dell’intransigenza. Già prima dell’acutizzarsi della crisi nel Caucaso si era pronunciato per l’esclusione di Mosca dai direttivi economici internazionali, fino alla sua espulsione dal G8. In più può essere adesso nel suo interesse elettorale spingere verso un confronto «più duro», sfruttando le debolezze del suo avversario e l’occasione di presentarsi come «presidente di guerra» e riportare la sicurezza nazionale al centro del dibattito, rubando il palcoscenico alle polemiche sulla congiuntura economica, che naturalmente favoriscono l’opposizione democratica. Bush però deve agire da statista e finora ha dimostrato di volerlo fare. Ha dato prova di realismo e di fermezza assieme.

Non si è lasciato trascinare dagli entusiasmi imprudenti del suo alleato di Tbilisi, non ha affrontato i russi in Georgia, ma ha preferito farlo su scala planetaria, cioè dove l’America resta indiscutibilmente più forte. La prova di forza, se si renderà inevitabile, non dovrà essere un duello in pedana, ma la valutazione del complesso degli obiettivi e delle possibilità concrete.

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