Credete a me, la vera passione è qui

di Paolo Giordano

Manco a dirlo, è stato un successo. No, no, non è una questione di ascolti televisivi, che qualcuno ritiene in calo ma non è così (basta dare un’occhiata ai dati, perché dopo lo switch off, Amici è l’unico format che non scende: carta canta, c’è da dire). È proprio una questione musicale e non importa che dal 2 ottobre, non prima, non durante i casting, io abbia fatto parte della commissione esterna del talent show nel ramo musicale, quella chiamata a valutare le prove dei concorrenti e soprattutto la loro capacità di crescere in un mondo competitivo come quello del pop.
In questa fase storica, il pop è un buco nero che metabolizza canzoni e le digerisce dimenticandole subito dopo. Questo era l’obiettivo: cercare artisti (per carità, i ragazzi di Amici non lo sono ancora ma si spera lo diventino) che tra dieci anni, non meno e forse di più, possano ancora essere in gara, produttivi e creativi, capaci di resistere alla clamorosa pressione che deriva dal calarsi dentro un mercato bulimico e allora sempre più spesso gravemente anoressico. Perciò in questi cinque mesi tanti di loro, da Antonio a Giorgia, si sono persi per strada non per mancanza oggettiva di qualità, perché chi viene selezionato per questo talent ha per forza una buona voce e buone potenzialità. Ma per scarsa adattabilità un po’ alle esigenze televisive (Amici è dopotutto un luogo televisivo). E soprattutto esagerata rigidità, ossia poca capacità di essere flessibili e di modulare la voce sulla base delle diverse esigenze che di volta in volta richiede una gara canora.
Perché Amici è proprio questo, una gara implacabile, e io me ne sono accorto facendone parte. Raramente, anzi mai, ho incontrato tanta passione per la musica in un complicato meccanismo televisivo come questo, che catalizza oltre quattro milioni di teleamici a ogni puntata e che ha necessariamente ritmi e leggi che la televisione impone con rigore chirurgico (e Maria De Filippi ha un istinto musicale che ce ne fossero in giro, di così fini). Chi passa da Amici e si mette in gioco accorcia clamorosamente lo start up, cioè la gavetta che tutti i cantanti sono obbligati a fare. Se gli va bene, ne fa di meno. Ma in ogni caso deve fare i conti con una drammatica impennata delle tensioni e dello spirito competitivo. È obbligato, in qualche modo, a essere moderno anche in un campo, come quello musicale, che spesso rigetta, per vezzo o frigido snobismo, le esigenze della modernità.
Chi ha vinto ieri ha un’armatura che i cantanti di una volta se la scordavano, sfracellati com’erano, appena diventati famosi, dall’incontro sanguinoso con le crudeli leggi del music biz.

È esperto ma non disilluso. È pronto, insomma. E deve fare i conti soltanto con la clamorosa onda d’urto che il pubblico di Amici riesce a garantire una volta che il proprio beniamino si affaccia con il primo disco sottobraccio. Mica poco.

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