Questa domenica lui compie 41 anni e lei ha deciso di regalargli una camicia nera: «Adora il nero». Non ci sarà il taglio della torta. Il carcere Due Palazzi di Padova non è il posto migliore per festeggiare i compleanni. Figurarsi per celebrarvi i matrimoni. Eppure l’avvocata Patrizia Trapella sta per giurare amore eterno al suo fidanzato detenuto: le pubblicazioni sono già apparse il 19 aprile. «Manca ancora un documento. Appena arriva, ci sposeremo».
La promessa di fedeltà se l’è fatta scrivere 15 giorni fa sulla pelle diafana del suo avambraccio destro: un nome di battesimo tatuato con inchiostro nero indelebile, Goran, che finisce con gli arabeschi come i capilettera nei libri di fiabe. Lui ha fatto altrettanto da solo in cella a Padova: s’è inciso «Patrizia» fra gomito e polso. Prim’ancora c’era stata la consegna della fedina. No, non quella penale: in oro bianco, con brillantino. Due anelli identici, comprati da lei, che entrambi portano al dito in attesa di scambiarsi la fede nuziale.
Fa sul serio, Patrizia Trapella. Non va in cerca né di notorietà da rotocalco né di pubblicità a buon mercato. «Dovrò prima avvertire per lettera l’Ordine degli avvocati», ha cercato di prendere tempo al telefono. E ora che ce l’ho davanti nell’unico momento di libertà, il 2 giugno, festa della Repubblica, sospira rassegnata: «Ma perché mai ho accettato quest’intervista?». È sincera. I suoi occhi verdi parlano per lei, come nella canzone dei Profeti: «Aveva gli occhi dell’amore, verdi / come due lacrime d’amore, grandi». Ma viene da piangere anche a leggere il profilo del suo cliente e promesso sposo Goran Jelisic: 16 imputazioni, fra cui omicidio, violazione di trattati, saccheggi; condannato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia a 40 anni di reclusione per crimini di guerra contro l’umanità, con le aggravanti di «disprezzo delle vittime, entusiasmo nel commettere i reati, disumanità»; due soprannomi, l’«Adolf serbo bosniaco» e il «boia del lager di Brcko», che gli resteranno appiccicati addosso a vita. La sentenza contro Jelisic è stata la più pesante fra le 85 finora emesse dai giudici dell’Aia, che dopo aver inchiodato alle loro responsabilità Slobodan Milosevic, l’ex presidente della Repubblica federale jugoslava, oggi defunto, stratega della guerra nei Balcani fra il 1991 e il 1995, e Radovan Karadzic, lo psichiatra leader della Repubblica serba di Bosnia, stanno ancora inseguendo il superlatitante Ratko Mladic, comandante delle forze serbo bosniache a Sarajevo e Srebrenica.
Provo imbarazzo a leggere all’avvocata quello che i giornali hanno scritto del suo futuro marito: «Amava farsi chiamare l’Adolf Hitler dei serbo bosniaci, quando sceglieva le sue vittime con arbitrio e crudeltà. Le selezionava quotidianamente tra i prigionieri musulmani e croati raccolti nel campo di Luka, vicino alla città di Brcko, nel nord della Bosnia, a maggio del 1992. Le interrogava per poi procedere all’esecuzione». E ancora: «Durante il processo ha ammesso di aver ucciso 12 persone, dichiarando di volersi “ripulire la coscienza”. I suoi avvocati hanno tentato di far leva sulla giovane età del loro cliente, 23 anni all’epoca degli eccidi. Davanti alla Corte è stato però ricordato come Jelisic amasse vantarsi, oltre che di essere l’Adolf di Bosnia, di preferire le “sue” esecuzioni prima di colazione». E infine: «Assassino psicopatico da antologia, “Adolf” Jelisic aveva libero accesso al lager dove erano imprigionati centinaia di croati e musulmani. Pur senza avere alcuna qualifica ufficiale, Jelisic era libero di uccidere, seviziare, stuprare, mutilare. Uno dei suoi passatempi era costringere due fratelli a fare sesso fra loro e poi a picchiarsi».
L’avvocata Trapella ascolta impassibile. «Invenzioni giornalistiche». Ha già chiesto la revisione del processo. È convinta di poter dimostrare l’infondatezza delle terribili accuse: «Gli Stati Uniti volevano una sentenza esemplare. Il tribunale dell’Aia gliel’ha data. Ecco tutto». I casi impossibili sono diventati il suo pane quotidiano da quando, lo scorso anno, ricevette una lettera del serial killer Donato Bilancia, che sta scontando 13 ergastoli nello stesso carcere. «L’ho incontrato più volte. E credo che sarei anche riuscita a ottenere la non imputabilità in quanto incapace di intendere e di volere al momento dei delitti. Ma poi il rapporto s’è interrotto a causa delle sue assurde pretese. Mi sono sentita come Clarice Starling, l’agente dell’Fbi nel Silenzio degli innocenti, quando va a trovare in isolamento il cannibale Hannibal Lecter».
Lo studio legale della futura signora Jelisic è a Taglio di Po, 8.500 abitanti, provincia di Rovigo. I genitori avevano lasciato queste terre dopo l’alluvione del Polesine per trasferirsi a Bollate, nel Milanese, dove Patrizia Trapella è nata nel 1967. Sono tornati a viverci quando il padre, analista chimico della Montedison, ha lasciato il lavoro per motivi di salute. Sulla scrivania l’avvocata tiene un ritratto sorridente del suo Goran davanti a una telecamera: «La foto fu scattata durante un’intervista in carcere concessa a Peter Larsen, reporter della Tv danese. Da allora sono rimasti buoni amici».
Perché ha fatto l’avvocata?
«Vengo da una famiglia cattolica. Ho studiato dalle Orsoline a Saronno. Alla fine del liceo linguistico, la preside mi disse: “Patrizia, tu puoi fare solo due cose nella vita: o la missionaria o l’avvocata”. Da bambina insistevo con i miei perché adottassero un fratellino nero. A 15-16 anni mi vedevo suora in Africa. In classe intervenivo per difendere i miei compagni, mi facevo interrogare al posto loro».
Ha assecondato la seconda vocazione.
«Ero ancora patrocinante quando ho aperto questo studio. Piccole cause, difese d’ufficio: ladri di polli, minacce, ingiurie. Poi ho avuto la folgorazione frequentando a Torino la scuola di alta qualificazione in psicologia interpersonale, investigativa, criminale e forense, promossa dal professor Guglielmo Gulotta».
Ha capito perché un uomo arriva a uccidere?
«Siamo tutti potenziali assassini. L’educazione e l’ambiente ci trattengono dal diventarlo».
Come ha conosciuto Jelisic?
«Mi scrisse dal carcere, in italiano, nell’aprile dello scorso anno. Scelse me perché aveva bisogno di un avvocato penalista che conoscesse almeno un paio di lingue e fosse esperto di diritto internazionale. La lettera si chiudeva così: “Venga a trovarmi. Ma non mi dia false speranze”. Lo incontrai in prigione ai primi di maggio. Dopo un paio d’ore di colloquio conclusi che si trattava di una sentenza politica. È una brava persona».
Da che cosa l’ha capito?
«Dall’umiltà nell’esporre la sua situazione, dallo sguardo trasparente. Una sensazione di pelle. Ho visto un prigioniero provato, sofferente. Nel 1998 il tribunale dell’Aia aveva gli occhi del mondo puntati addosso, doveva dare una risposta forte. E le risposte forti vengono dalle sanzioni forti. Goran era un giovane tenente della milizia serba agli ordini di Karadzic. Un ufficiale di carriera, un uomo tutto d’un pezzo. Si trovò imputato in un processo dai costi elevatissimi. Poteva finire diversamente? Fu il secondo arrestato e il secondo condannato dopo Ranko Cesic».
S’è dichiarato colpevole di 12 omicidi.
«Ha cercato di contenere i danni di fronte alla prospettiva di un ergastolo per genocidio, capo d’imputazione dal quale infatti è stato assolto. Ha pensato alla moglie Anna, al figlioletto Alexander, ai genitori, alla sorella, esposti in patria a ogni genere di ritorsioni».
Oggi come definirebbe il suo futuro sposo?
«Militare dentro. Con un senso del dovere altissimo. Di una fermezza che non scende a compromessi. Quando si arruolò come volontario aveva appena 16 anni».
Perché è detenuto in Italia?
«Come altri tre condannati, ha scelto il Paese più vicino a casa. Siamo uno dei 17 Stati dell’Onu che possono dare esecuzione alle sentenze pronunciate all’Aia. Io assisto anche Milorad Krnojelac, un professore di matematica e fisica che deve scontare 15 anni nel carcere milanese di Opera. È malato terminale per un tumore alla gola e mi sto battendo per farlo uscire. Goran ha usufruito di una riduzione della condanna da 40 a 30 anni, pena massima prevista dalla legge italiana quando il delitto non è da ergastolo».
Uscirà comunque a 70 anni...
«No. Ne ha già scontati 11 e mezzo. Più 1.000 giorni di liberazione anticipata fanno 14 e mezzo. Ho presentato istanza di indulto: sono altri 3. Nella peggiore delle ipotesi gli restano una decina d’anni. Ma è prassi dei giudici dell’Aia rilasciare i detenuti per buona condotta a due terzi della pena».
Tempi della revisione?
«Il tribunale dell’Aia vuole chiudere i battenti entro il 2010. Quindi prevedo meno di due anni. Goran finora non è mai uscito dalla cella. Era in Eiv, elevato indice di vigilanza, il 416 bis previsto per mafiosi e terroristi, in pratica un isolamento. Gli ho fatto ottenere la declassificazione a detenuto comune. Ora almeno è in cella con un’altra persona. Ho già chiesto un permesso premio».
Vi vedete spesso?
«In media due volte la settimana. Tutti i sabati sono con lui dalle 9 alle 15.30, nell’area colloqui, a preparare gli atti per la revisione».
E s’è convinta della sua innocenza.
«Sì, in modo netto. Vi sono fatti che smontano le accuse. Ovviamente non posso anticiparli. Ma da lì non ci si smuove».
Accettando l’incarico, come pensava di poter essere pagata?
«C’è sempre la possibilità del gratuito patrocinio a spese dello Stato. I tempi sono lunghissimi, ti liquidano la metà della parcella che presenti. Ma a me non interessava, difendo gratuitamente un’infinità di detenuti. E poi Goran è un imprenditore. A Bijeljina ha ereditato la ditta di import-export del padre commercialista. Vuol portarla in Italia».
Quando vi sposerete?
«Me lo dica lei. C’è di mezzo un ostacolo giudiziario interessante. In punta di diritto il tribunale di Padova sostiene che manca il documento d’identità, perché il passaporto di Goran è scaduto. Lo credo bene, visto che non viaggia! Ma dico io: avete le foto segnaletiche, avete i rilievi dattiloscopici, che cos’altro vi serve? Stiamo aspettando che il consolato della Bosnia Erzegovina gli rilasci il passaporto».
Però lui ha già una moglie, mi ha detto prima.
«Sposata soltanto civilmente. Per cui, se Dio vorrà, avremo la gioia di celebrare le nozze in chiesa. Per noi è molto importante. Don Stefano Donà, parroco di Tolle e mia guida spirituale, si sta interessando per il doppio rito, visto che Goran è ortodosso e io cattolica».
Perché s’è diviso dalla moglie?
«Non spetta a me dirlo. Anche perché il figlio quattordicenne vive ancora con Anna. Io stessa ho alle spalle un matrimonio religioso dichiarato nullo molti anni fa dalla Rota».
I suoi genitori che dicono?
«Sono felicissimi. Mio padre gli scrisse una lettera. Ne è nato un bel rapporto epistolare. Si sono scoperti entrambi pescatori sfegatati. Ora mamma e papà vengono a trovarlo in carcere con me il giovedì».
Quando ha capito di amarlo?
«Il 25 agosto. Goran mi raccontò una situazione personale legata alla guerra. Lo guardai e scoppiai in lacrime. “Perché piangi?”, mi chiese. Gli risposi: perché sono innamorata di te. “Anch’io”, replicò lui, “ma non avevo il coraggio di dirtelo per paura di perdere la difesa”».
Nel dicembre del 1998, dopo un interrogatorio, Jelisic tentò d’impiccarsi nel carcere speciale dell’Onu a Scheveningen.
«Lo so. Me ne ha parlato».
Lei pensa che sia vittima di un’ingiustizia?
«Io penso che la giustizia, e la storia, la scrivano i vincitori. Quello dell’Aia non è nemmeno un tribunale di giudici togati. Sono tutti accademici».
La legge non è veramente uguale per tutti, come si legge nelle aule di giustizia?
«Dovrebbe. Ma per qualcuno è più uguale. Lei come fa a ottenere giustizia se non ha i soldi per pagarsi gli avvocati? Metà dei miei clienti appartengono al target basso, vivono in carcere, non hanno un euro».
Ma un soldato deve sempre eseguire gli ordini dei superiori oppure no?
(Ci pensa a lungo). «È una domanda difficile. Se si è arruolato come volontario, sì».
Quindi, al posto del capitano Erich Priebke, alle Fosse Ardeatine lei avrebbe eseguito gli ordini del tenente colonnello Herbert Kappler?
«Per salvarmi, sì».
È «militare dentro» come il suo fidanzato.
«È un sì a denti stretti. Le insubordinazioni erano punite con la pena capitale. O scegli di vivere o scegli di morire. Io avrei scelto di vivere».
Con lei quali responsabilità s’è assunto Goran Jelisic?
«Ha eseguito tutti gli ordini ricevuti in prima linea, nel pieno rispetto della Convenzione di Ginevra. Comandava un battaglione di 1.250 soldati. Ha combattuto, ha sparato, ha lanciato granate per difendere la sua patria».
Però si definiva l’Hitler serbo.
«È una leggenda metropolitana. Si occupava di scarcerazioni. Quando rilasciava i prigionieri, a volte si firmava Adolf. Un modo grottesco di scherzare sul proprio nazionalismo. Era poco più di un ragazzo... In realtà centinaia di testimoni giurano sulla sua umanità. Aiutava le famiglie, faceva assistere le donne incinte dai medici, ha persino tenuto a casa propria i figli di molti musulmani e ancor oggi spende tutta la piccola pensione di Stato che riceve in carcere per acquistare beni di prima necessità da regalare ai detenuti extracomunitari, in gran parte di religione islamica. Il suo processo all’Aia era cominciato a porte aperte. Appena sono arrivati a deporre questi testimoni musulmani è continuato a porte chiuse».
Se con lei si fosse confessato colpevole, avrebbe continuato a difenderlo?
«Se avessi il minimo dubbio che fosse l’assassino sanguinario e sadico descritto dai giornali, no, non avrei accettato l’incarico.
(455. Continua)
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