Gian Galeazzo Biazzi Vergani, che allora noi chiamavamo solo Gian, non faceva parte del Comitato dei cinque che, sotto la guida di Indro Montanelli, fondò questo giornale 45 anni fa. Eppure, se egli non avesse fatto parte della pattuglia di colleghi che lasciò il Corriere della Sera per imbarcarsi in questa avventura, la nostra storia sarebbe stata diversa. Nei primi anni, Biazzi, nelle vesti di caporedattore, è stato infatti l'indispensabile uomo-macchina, colui che ogni sera trasformava in un numero del giornale le idee, le notizie, gli spunti della giornata, ordinando gli articoli, disegnando la prima pagina e impostando la titolazione. Dopo otto anni, nel 1982, divenne condirettore, preziosa e indispensabile spalla di Montanelli, e nel 1991 presidente della Società: un posto che ha occupato - tra mille vicende - fino all'ultimo giorno, a testimonianza del fatto che per lui il Giornale era una ragione di vita. Nessuno ha dato più di Gian a quella che, all'atto della fondazione, i cinquanta giornalisti che avevano seguito Montanelli consideravano non tanto un'impresa editoriale, quanto una missione.
Biazzi Vergani non era sempre un uomo facile: esigente con i colleghi, autoritario quanto basta, intransigente con chi non faceva il suo dovere. Negli anni in cui ebbe in mano le redini del quotidiano, conduceva le riunioni con grande autorevolezza, ascoltava tutti ma se riteneva di avere l'idea migliore non esitava a imporla. Per quanto mi ricordi, in tutti questi anni non scrisse neppure un articolo, perché era persuaso che tutti dovessero attenersi al compito che si erano assunti. Questo non significa che non esercitasse anche una forte influenza sulla linea politica. Condivideva in pieno le posizioni liberal-conservatrici di Montanelli, lo assecondò senza riserve nelle grandi battaglie politiche degli anni Settanta e Ottanta, ma non volle mai diventarne protagonista, lasciando questo ruolo ad altri colleghi come Bettiza e Zappulli. Tuttavia, la sua storica sintonia con Indro venne meno quando, nel 1994, questi ruppe con Silvio Berlusconi e lasciò la direzione della sua creatura per fondare La Voce. Credo che Montanelli si aspettasse che Biazzi, come tanti altri, lo seguisse nella sua nuova impresa e che tra i due ci siano stati alcuni colloqui abbastanza burrascosi. Invece, egli decise di restare, e quando mi convocò per chiedermi a nome dell'editore se me la sentivo di mandare avanti il giornale fino all'arrivo di un nuovo direttore, convenimmo su un punto: dopo avere lottato per vent'anni su posizioni di centrodestra, non aveva senso abbandonare la partita proprio nel momento in cui c'era la possibilità di una svolta nella direzione da noi sempre auspicata.
Così, Gian è rimasto sulla tolda per altri 25 anni, presiedendo la Società attraverso cinque direzioni diverse e prestandosi anche a firmare per un breve periodo il Giornale quando, per le note vicende, Alessandro Sallusti dovette rassegnare temporaneamente le dimissioni. È stato, almeno fino a quando le condizioni di salute glielo hanno permesso, un punto di riferimento per colleghi vecchi e nuovi, un po' un anello di congiunzione tra presente e passato. Negli ultimi difficili anni aveva un po' ridotto la sua attività, fino a non venire più ogni giorno in via Gaetano Negri come aveva fatto per quasi mezzo secolo. Due anni fa mi ha anche lasciato in eredità la rubrica delle lettere dei lettori, che aveva preso in mano - a ulteriore testimonianza del suo attaccamento alla testata - dopo la scomparsa di Mario Cervi. Ma, quando ci siano visti l'ultima volta a una cena di amici, non abbiamo fatto altro che parlare del Giornale, dei tanti ricordi che avevamo in comune ma anche delle nostre speranze per l'avvenire.
Al di là del ruolo essenziale che ha avuto, Biazzi Vergani verrà ricordato come un grande gentiluomo, di una pasta che oggi difficilmente si incontra. Sono contento di essere stato non solo suo collega, ma anche suo amico.
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