L'Aquila, Berlusconi e le casette. La verità che a sinistra è un tabù

A dieci anni dal terremoto

L'Aquila, Berlusconi e le casette. La verità che a sinistra è un tabù

Il guaio dell'Italia è che superata la fase dell'emergenza si torna alla anormalità. Sono passati 10 anni dal 6 aprile 2009, ore 3.32, quando sotto L'Aquila si accese un mostruoso frullatore. Si ricordano le 309 vite perse, assieme a quelle interrotte di 80mila persone rimaste senza un tetto sulla testa. Dieci anni dopo la città è una via crucis di cantieri, le transenne mettono sempre in guardia dai crolli, le ferite sono diventate cicatrici. In tutto questo tempo pubblico e privato hanno speso 17 miliardi di euro, eppure la ricostruzione è cristallizzata e sospesa in una promessa mancata. Ma sulle macerie del capoluogo abruzzese si consuma il dramma di un Paese che non è capace di guardare ai fatti con distacco, di abbandonare le visioni di parte per perseguire l'interesse comune.

E qui torniamo al principio, perché la storia del post-sisma va divisa tra il momento in cui bisognava dare una risposta immediata, ovvero restituire un'abitazione a chi l'aveva persa, e in un momento successivo, quando dall'emergenza si sarebbe dovuto passare alla pianificazione e al consolidamento di quanto iniziato. Inutile girarci intorno: quello che sui giornali e in tv si fa ancora fatica a riconoscere, come un tabù, è il lavoro svolto dal governo Berlusconi all'indomani della tragedia. Basterebbe darne conto con i numeri, dicono più di molte analisi: 5.600 abitazioni per 25mila sfollati, le cosiddette «casette» di cui 4.500 in muratura, arredate e corredate persino di elettrodomestici, realizzate con criteri antisismici e consegnate in cento-centoventi giorni, nacquero 19 nuovi quartieri (le «new town») con centri d'aggregazione per uscire dalla logica dei container-ghetto o dell'immobilismo, come si era sempre fatto e si è continuato a fare (male) di recente, da Amatrice a Ischia. A due settimane dal terremoto il Consiglio dei ministri, convocato non solo per ragioni simboliche a L'Aquila, stanziò 8 miliardi per far fronte all'emergenza e porre le basi della ricostruzione; tra le misure-tampone furono sospese le tasse e previsti bonus fiscali per riaprire negozi e seconde case. Pochi giorni più tardi, con il discorso del 25 aprile a Onna il Cavaliere raggiunse l'apice del consenso, invocando uno spirito di coesione nazionale al di là dell'appartenenza politica. Quanto è accaduto dopo dimostra che quell'appello è rimasto inascoltato. Sparare sulla Protezione civile è stato a lungo lo sport nazionale a mezzo stampa, talk show e addirittura film... ricordate Draquila di Sabina Guzzanti?

L'esempio virtuoso del Friuli è lontano. L'emergenza ha lasciato il posto alla gestione ordinaria paralizzata da vincoli infiniti, burocrazia persecutoria, sprechi e inchieste giudiziarie, risate immonde di faccendieri senza scrupoli. Se oggi una casetta su dieci non sta più in piedi, è perché sono mancate la manutenzione e una visione che andasse oltre l'ottica del qui-e-ora.

Otto anni di amministrazione di centrosinistra, due di centrodestra e sei diversi governi nazionali più tardi, il coraggio della ricostruzione sta sui volti dei cittadini che resistono. E che sfilano orgogliosi nella lunga notte aquilana con una fiaccola accesa tra le mani.

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