Quest’intervista nasce con un po’ di imbarazzo. Il direttore del Tempo, Gian Marco Chiocci, per tre lustri è stato mio compagno di banco al Giornale. Abbiamo firmato innumerevoli pezzi a quattro mani, tra i quali l’inchiesta sulla casa di Montecarlo. Oggi rischia il processo.
Il reato (tutto da dimostrare) ipotizzato dalla procura uscita malconcia dalla sentenza non mafiosa di Mafia capitale? Aver favorito Massimo Carminati attraverso Salvatore Buzzi, spifferandogli che stavano per arrestare il cecato. La procura ha chiuso le indagini di questo stralcio di Mafia Capitale, ora il gip stabilirà se rinviarlo a giudizio.
Gian Marco, anzi, direttore, dopo tutto il fango che ci è piovuto addosso per l’affaire monegasco di Fini, i tuoi detrattori brindano a questa disavventura. Che hai combinato?
«Nulla. Sono malato per le notizie, ho solo fatto il cronista dimenticandomi del mio nuovo ruolo di direttore. Ho cercato di intervistare colui che qualsiasi collega avrebbe voluto incontrare per un’intervista-scoop. Grazie ai buoni uffici dell’avvocato Ippolita Naso, vecchia amica, ho incontrato il cattivo per antonomasia. Fu un soliloquio di Carminati. Mi prese il telefono e lo posò lontano perché, esordì, sapeva di avere alle calcagna carabinieri, poliziotti, finanzieri, agenti segreti, Rambo e Robocop».
E come faceva a saperlo?
«Disse che non era un coglione, che leggeva i giornali e i libri che in quel periodo parlavano di lui con dettagli che nessun romanziere poteva immaginare. Come poi è emerso al processo, Carminati ha raccontato di essersi imbattuto spesso in carabinieri sotto casa sua e in giro in città».
Tu non gli hai detto nulla?
«E che dovevo dirgli? A differenza dei colleghi che avevano notizie di prima mano - a rileggerli dopo, certi articoli sono curiosamente profetici e precisi - non sapevo niente di questa indagine, se non ciò che leggevo su altre testate. Siccome a scrivere erano colleghi sempre ben informati, bisognava essere un coglione per non arrivare a capire che qualcosa bolliva in pentola su Carminati, ma io non ci avevo mai parlato prima. Ecco perché quando mi dicono che l’ho facilitato sorrido. Se qualcuno gli ha fatto capire che c’era un’indagine in corso, quello non sono io».
Ti accusano di favoreggiamento tramite Buzzi. Com’è andata?
«Incontrai Buzzi, per caso, sotto il giornale. Tempo prima me lo aveva portato in redazione Alemanno, raccomandandomelo come persona per bene, anche se di sinistra. Mi disse che aveva una storia da raccontare, affidai la pratica alla mia bravissima Valeria Di Corrado che, come emerge dalle intercettazioni, svolse impeccabilmente il suo lavoro trovando riscontri, come le avevo chiesto, alla soffiata di Buzzi su presunte malefatte di un centro Cara. Quando lo incontrai di nuovo, era molto interessato a una serie di articoli dell’Espresso su Carminati. Mi chiese se ne sapevo qualcosa, se ero a conoscenza di indagini. Risposi che leggevo i giornali, come lui, e che qualche domanda me la facevo».
Quindi non hai detto niente nemmeno a lui. E perché ti accusano del contrario?
«Per un’intercettazione nella quale, su pressione di Carminati, Buzzi ribadisce di aver chiesto lui informazioni sulle indagini, e che non ero io ad avergliele dette. Siamo alla spacconeria, alla “mafia parlata” evocata dall’avvocato Naso al processo. Frasi in libertà dove ognuno fa il gradasso. Da vent’anni navigo in questi mari, ho subito decine di perquisizioni. Mi hanno intercettato come il peggior criminale del pianeta per trovare le fonti dei miei scoop. Sarei stato un coglione - ora lo dico io - a divulgare un’informazione che nemmeno conoscevo a persone che avrei dovuto sapere (e non sapevo) essere sotto intercettazione. Non l’ho fatto».
Il processo è finito come sappiamo. Di questo stralcio sei preoccupato?
«Mi ha sorpreso, come ho già detto sono allibito. La procura ha fatto il suo, ne ho rispetto, ma ora dovrò perdere tempo a difendermi.
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