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Odissea nei simboli dal dio Po al presepe

Odissea nei simboli dal dio Po al presepe

La sacra ampolla - come la carrozza di Cenerentola - si è tramutata in una caraffa di mojito; la canottiera bianca a coste è coperta da felpe inneggianti a Terni, Messina o Castrezzato.

Il verde che ha dominato la scena politica si è ritirato come le calotte polari e dilaga un blu trumpiano, conservatore e istituzionale. E del Dio Po, padre burbero delle genti che sognavano il federalismo, resta solo l'eco di un'eresia pagana, per chi oggi si presenta al congresso della svolta storica con un presepe in mano.

Dell'evoluzione simbolica messa in atto dalla Lega Nord (oggi Lega per Salvini premier) si è molto scritto. Si è ovviamente sottolineato come un nuovo arsenale di riti e riferimenti sia stato fondamentale per traghettare un movimento regionalista e secessionista nell'alveo di un partito a vocazione maggioritaria, sovranista e nazionale. E si è detto come la figura del leader - messianica fin dai tempi della Lega «leninista» del Senatùr - sia diventata con Salvini onnipresente e pervasiva, in anima, corpo e tweet.

Quel che si tende a sottovalutare con un po' di snobismo, invece, è che la mutazione degli emblemi leghisti non è solo folclore, ma ci spiega come è cambiata l'Italia intera meglio di molti rapporti statistici. Per esempio, chi avrebbe mai sventolato un presepe negli anni dei cravattini texani di Speroni? Nessuno, perché il presepe era parte del bagaglio culturale condiviso, non veniva bandito né rivendicato. Così come la Madonna: potevi crederci oppure no, ma citarla al Senato o invocarla in un comizio non era nell'ordine naturale delle cose. E non solo dalle parti di via Bellerio.

I riferimenti pseudo-celtici, poi, raccontavano un'altra storia. Ovvero quella - comune a tutto il mondo - di un recupero del localismo contro la globalizzazione. Il Sole delle Alpi e le corna vichinghe sul pratone di Pontida erano espressioni un po' kitsch ma genuinamente sentite di attaccamento alle radici delle «piccole patrie». Ora le feste da strapaese hanno segnato il passo, vincono i flash-mob e l'agorà è una diretta Facebook che unisce il Monviso ai Nebrodi. La tribù di ieri è la comunità coesa (in nome di un nemico e di tante para-ideologie) di oggi. La polenta e le salamelle di ieri sono i post sulla Nutella di oggi. L'Alberto da Giussano eroe comunale contro il potere centrale di Roma ladrona di ieri è l'eroe anti-tedesco contro il potere centrale della Ue di oggi. Non perché sia diversa soltanto la Lega, ma perché sono cambiati gli italiani.

La Lega è il movimento più «popolare» su piazza, una cartina di tornasole di quel che interessa e accende, dei fastidi e delle ossessioni, dei valori e dei limiti del Paese. Di tutto il Paese, sia il terzo che la sostiene, sia i due terzi che la odiano. Il Va' Pensiero che doveva sostituire l'Inno di Mameli era una suggestione naif, ma era comunque il tentativo di ancorare l'identità partitica alla storia. Così come la presenza di un ideologo come Gianfranco Miglio parlava di un partito in cui - oltre la semplicistica cortina del dito medio e del linguaggio da trivio - c'era spazio anche per la teoria politica. Oggi la colonna sonora è La canzone del Capitano di dj Francesco e a giocare nel ruolo di ideologi ci sono due che vorrebbero usare le riserve auree di Bankitalia come argent de poche per le spesucce.

Tutto questo significa che l'approccio della classe dirigente leghista è cambiato, certo. Ma tutto accade in perfetta sincronia con l'andazzo generale. Quello che premia l'antielitarismo e la conflittualità, a partire dai grillini per arrivare alle Sardine. Guardare la Lega oggi è esaminare ai raggi X una lastra di quello che siamo diventati.

Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.

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