"Signor presidente, sia buono: mi conceda la pena di morte"

Quattro condanne a vita, quattro assoluzioni. Infine l’ergastolo ostativo che non prevede permessi: l’unico, 11 ore, l’ha avuto per potersi laureare

"Signor presidente, sia buono: mi conceda la pena di morte"

Signor presidente della Repubblica, un cittadino di 56 anni, residente in un edificio di proprietà dello Stato che lei rappresenta, al numero 10 di via Maiano, a Spoleto, le chiede d’essere aiutato a morire. Se lei ha un cuore, dovrebbe esaudirne l’insano desiderio. Quest’uomo, in buona salute, determinato e generoso, è uno scrittore, ha già pubblicato tre libri - l’ultimo, Zanna Blu (Gabrielli editori), con la prefazione di Margherita Hack, uscito in questi giorni - ma per sopravvivere è costretto a lavorare in una biblioteca a 26 euro al mese. La casa in cui abita misura tre passi e mezzo in lunghezza e tre passi in larghezza, bagno compreso, e ha il letto inchiodato al pavimento. Dentro ci sono solo uno sgabello, una lampadina, un tavolino, un paio di stipetti attaccati al muro, una mensola con sopra un piccolo televisore.

Si entra nel monolocale da un cancello. Dietro il cancello, un blindato che viene aperto al mattino e chiuso la sera. Al centro del blindato, uno spioncino, perché Carmelo Musumeci, alias Zanna Blu, originario di Aci Sant’Antonio (Catania), è detenuto per associazione a delinquere di tipo mafioso, in regime AS1 (Alta sicurezza), va guardato a vista e non può stare con altri reclusi: «Divido la cella solo col mio cuore». Nel 1995 gli è stato inflitto l’ergastolo quale mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani, un pregiudicato di Massa Carrara assassinato nel 1991, che l’anno prima, secondo la Criminalpol, aveva partecipato a Roma all’assassinio di Enrico De Pedis, il boss della Magliana oggi sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare. Il pentito Angelo Siino ha scagionato Musumeci, attribuendo il delitto Gozzani, del quale non s’è mai scoperto l’esecutore materiale, a Cosa nostra, ma le carte di quella confessione si sono smarrite nei meandri del Palazzo di giustizia di Palermo. Musumeci non si dichiara né innocente né colpevole: semplicemente s’accontenta d’essere giudicato un uomo diverso. «Sono stato punito per reati che non ho commesso e perdonato per reati che ho commesso». Del resto per quattro volte l’hanno condannato al carcere a vita e per quattro volte l’hanno poi assolto.

L’inquilino della cella numero 154 è «un uomo ombra». Sconta un tipo di ergastolo speciale, quello ostativo, che gli nega permessi-premio o altri benefici. Per questo supplica Giorgio Napolitano di concedergli la pena di morte. «Un ergastolano ostativo è cattivo e colpevole per sempre. Per uscire ha un’unica possibilità: mettere in cella un altro al posto suo. Se parla, lo liberano. Sennò sta dentro fino al momento del decesso». Nel suo caso, per la verità, c’è stata un’eccezione, altrimenti non avrebbe potuto scrivere Undici ore d’amore di un uomo ombra, il suo secondo libro, con prefazione di Barbara Alberti, che narra dell’unico giorno di felicità da quando, 21 anni fa, ha smesso di veder sorgere il sole all’orizzonte, «perché vivo con le sbarre alla finestra e con un muro davanti agli occhi». L’11 maggio 2011 il giudice di sorveglianza gli ha concesso un permesso straordinario per presentarsi presso la facoltà di giurisprudenza di Perugia, dove s’è laureato in legge con una tesi dal titolo La «pena di morte viva»: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità, discussa col professor Carlo Fiorio, docente di procedura penale.

Quel giorno ad attenderlo all’uscita della prigione, per le uniche 11 ore di libertà della sua vita recente, e soprattutto futura, c’era Nadia Bizzotto, dall’età di 21 anni costretta in carrozzella per un incidente stradale, responsabile della casa d’accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi a Bevagna (Perugia). È lì che s’è tenuto il pranzo di laurea. Musumeci aveva accanto la compagna Sandra, 58 anni, soprannominata Lupa Bella, e i figli Barbara, 30 anni, laureata in ingegneria chimica con 110 e lode, che lavora a Modena, e Mirko, 28, che gli ha dato due nipoti, Lorenzo, 6, e Michael, 4. Porta i loro nomi tatuati sulle braccia.

Nadia Bizzotto è una volontaria originaria di Bassano del Grappa che da anni, tutti i mercoledì, lo va a trovare in carcere. Musumeci la chiama «il mio diavolo custode» e in cella conserva il rosario che la ragazza stringeva in ospedale dopo lo schianto. «Ho anche un’immagine della tomba di don Oreste e poi, le sembrerà strano, ma nel mio angolo della felicità, dove tengo le foto dei figli e dei nipotini e le foglie e i fiori secchi che mi mandano le suore o qualche mio amico che vive nei boschi, c’è anche lei, Lorenzetto, perché la mia figlia del cuore, Mita, mi ha mandato, non so neppure dove l’abbia presa, una sua foto sorridente accanto a don Benzi, con scritto sul retro “Don Oreste con Stefano Lorenzetto del Giornale”. Anche se mi hanno detto che la sua è una testata forcaiola, m’ispirano le persone che sorridono».

Sono imperscrutabili i disegni che si compongono in questi 10 metri quadrati dimenticati dal sole ma non dalla luce. Mita è la figlia di un operatore penitenziario della casa circondariale di Perugia, morto tre anni fa per un tumore al pancreas. S’è imbattuta in Carmelo visitando il suo sito su Internet dedicato alla condizione carceraria ed è come se avesse trovato un secondo padre. Gli ha scritto. Ora gli fa visita ogni 15 giorni insieme col marito.

La sua compagna le vuole bene da 30 anni, ma non può aspettare il suo ritorno. Che cos’è che vi tiene uniti?
«Lascio rispondere Zanna Blu: “Lupa Bella era una lupa meravigliosa, dolce e buona. Anche lei, come Zanna Blu, aveva sofferto. Come lui era stata abbandonata da piccola e fino a quel momento era vissuta da sola. Una notte di luna piena giurarono entrambi che non si sarebbero mai lasciati, né con il cuore, né con la mente. Che i loro cuccioli mai e poi mai sarebbero stati abbandonati e che non avrebbero mai conosciuto altri genitori che loro”».

Lei è stato abbandonato da piccolo?
«Mio padre era bracciante a giornata, emigrò in Francia per fame. Mia madre faceva avanti e indietro. Nella mia famiglia l’amore era un lusso. Muratore a 9 anni, a 10 mi hanno messo in collegio, ma sono scappato. Da nonna Lella ho imparato ciò che altri avevano insegnato a lei: a rubare per sopravvivere. Mi riempì di botte in presenza del bottegaio che m’aveva pescato a sgraffignare. Poi a casa me ne diede altrettante perché m’ero fatto scoprire».

A che età commise il suo primo reato?
«Sono nato colpevole. Non ricordo l’età, ma l’episodio sì: il furto di una pistola giocattolo esposta su una bancarella in una fiera. Assomigliava a quella vera che teneva nascosta mio zio. Ho imparato a rubare prim’ancora di scrivere, forse di parlare. Ma c’è solo un reato che mi ha fatto sentire veramente colpevole. Avrò avuto 10 anni. Scippai la borsa a una vecchietta. Dentro c’erano 1.000 lire. Non so perché, me ne vergognai a morte. Lasciai la banconota in elemosina a un povero davanti a una chiesa e giurai a me stesso che da grande sarei andato a prendere i soldi solo dove ce n’erano molti. E così feci. Appena quindicenne, già rapinavo banche».

In quante prigioni è stato?
«Tante. Troppe, per elencarle tutte. La prima fu Marassi a Genova nel 1972. Sono stato anche in tre carceri francesi. Questo di Spoleto è il meno peggio».

Mi racconti la sua giornata.
«Mi sveglio presto. Alle 8.30 vado a lavorare in biblioteca. A mezzogiorno ritorno in cella. Pasto frugale. Leggo i giornali. A volte vado all’ora d’aria, ma più spesso rimango in cella. Aspetto che passi la guardia con la posta. Rispondo alle numerose lettere che ricevo. La sera mi cucino qualcosa. Poi inizio a fare su e giù in cella per digerire. Tre passi avanti e tre indietro. Quando sono abbastanza stanco, mi sdraio nella branda. Leggo fino a tardi. Poi mi addormento perché non posso fare altro».

A parte la privazione della libertà, che cosa la fa più soffrire nella sua condizione di carcerato?
«La mancanza di futuro».

Quanti sono i detenuti italiani condannati al carcere ostativo?
«Potrebbero essere un migliaio. È difficile quantificare, perché decide di volta in volta il magistrato di sorveglianza».

Non c’è nessuna speranza che la sua pena venga condonata dal capo dello Stato?
«Non credo che un presidente della Repubblica sano di mente possa dare la grazia a un ergastolano condannato fra l’altro per mafia. Io voglio uscire dal carcere perché me lo merito e non per un colpo di culo o perché faccio la spia: non sono così criminale da usare la giustizia per procurarmi una scorciatoia».

Com’è possibile che gli assassini di Aldo Moro e i due di Ludwig siano già liberi e lei no?
«La legge non è uguale per tutti».

È favorevole alla pena di morte?
«Credo che sia meglio morire una volta sola che tutti i giorni. Ho scritto a Napolitano affinché si dimostri più umano e mi tramuti l’ergastolo in un’esecuzione capitale».

Alla gente spaventata, che rinchiuderebbe chi delinque e butterebbe via la chiave, che cosa sente di poter dire?
«Se vuoi punire un criminale e dargli la più severa delle pene, perdonalo. Solo il perdono ti fa sentire veramente colpevole e ti tira fuori il senso di colpa per il male che hai commesso. Se invece le persone perbene si dimostrano più cattive di te, a tal punto da infliggerti un castigo senza fine, persino il peggior criminale si sentirà innocente e migliore dei suoi governanti».

Perché ha deciso di laurearsi in giurisprudenza?
«Per lottare meglio contro l’Assassino dei Sogni, come io chiamo il carcere, che è il più grande criminale che il mondo abbia mai partorito. Voglio costringerlo a rispettare le sue stessi leggi. E anche difendere i miei diritti e quelli dei miei compagni».

Per quanti anni ha studiato?
«Sono entrato in galera con la quinta elementare e ho preso la licenza media. Poi, quando ero sottoposto allo stato di tortura del regime 41 bis nell’isola del diavolo dell’Asinara, ho iniziato a studiare da autodidatta, ma non mi davano i libri. Allora Giuliano, un maestro in pensione, strappava le pagine dei testi e me li mandava per lettera, pochi fogli alla volta. Mi ero iscritto al liceo scientifico, come mia figlia, ma c’era troppa matematica e io non sapevo fare neppure una divisione. Soprattutto non riuscivo a comprendere perché la moltiplicazione di due numeri negativi diventasse un numero positivo. Sono passato alle magistrali: peggio che andare di notte, ho trovato il latino e io non sapevo neppure la grammatica italiana».

Quando ha appreso che l’avrebbero lasciata uscire di prigione per andare a laurearsi?
«Alle 17 del giorno precedente, il più lungo di tutta la mia vita. Avevo paura che ci ripensassero».

E durante la notte ha temuto di morire, come Mosè, che poté contemplare la Terra Promessa dall’alto del Monte Nebo ma non entrarci, è così?
«Sì. Dovevo decidere se rientrare in carcere, sapendo che non avrei avuto mai più un’altra occasione simile: il tribunale di sorveglianza concede il permesso di necessità una sola volta e per un evento unico e irripetibile. Oppure potevo scappare all’estero e godermi la libertà fino a quando non mi avessero preso. Ho pensato anche a una terza possibilità: impiccarmi a un albero prima di ritornare dentro, morendo così da uomo libero. Alla fine ho scelto di rientrare per fare un dispetto all’Assassino dei Sogni e dimostrare che sono migliore di lui».

Quando conobbe don Oreste Benzi?
«Nel 2007 e da allora condivido il progetto “Oltre le sbarre” della sua comunità. Era venuto nel carcere di Spoleto, pensavo che fosse il solito prete che sta solo dalla parte dei “buoni”. In quel periodo stavo organizzando il primo sciopero della fame collettivo in tutte le carceri d’Italia, per l’abolizione dell’ergastolo. Gli chiesi se avesse il coraggio di schierarsi dalla parte dei mafiosi, dei criminali, dei più cattivi di tutti, appoggiando il nostro sciopero per far cancellare l’ignominia del “fine pena mai”. Lui mi sorrise e mi rispose: “Sì!”. Poi aggiunse: “L’uomo non è il suo errore”».

E se un giorno Nadia Bizzotto smettesse di farle visita?
«Non può farlo. Don Oreste me l’ha lasciata come angelo custode. Sono le donne e gli uomini che tradiscono. Gli angeli come lei e i diavoli come me non tradiscono mai».

Ha mai pensato di evadere?
«Non solo lo penso, ma lo faccio tutte le volte che mi addormento. L’ho sognato anche questa notte».

Don Benzi una volta mi disse: «Per rimanere in piedi, bisogna mettersi in ginocchio». Che cosa la tiene in piedi?
«Anche se avessi ucciso, le assicuro che non è mai morto un innocente per colpa mia. Quando uno nasce in una famiglia come quella che ho avuto io, non ha scelta: o sta con i buoni o sta con i cattivi. Io sono stato con i cattivi perché erano gli unici che mi volevano bene. Non cerco né pietà né compassione, pretendo la pena di morte o la fine della mia pena.

Ecco che cosa mi tiene in piedi. Ora basta. Dottor Lorenzetto, cazzo! Ma si rende conto che mi ha fatto 51 domande? Neppure un pubblico ministero mi ha mai interrogato così».

(599. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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