Politica

Le trappole M5s sbarrano la strada al partito di Cairo

Di Maio rispolvere il conflitto di interessi contro l'editore di Rcs

Le trappole M5s sbarrano la strada al partito di Cairo

La cronaca è quella di un incontro casuale, avvenuto in treno sabato 6 aprile, che spiega molto degli intrighi e delle manovre che hanno trasformato la politica italiana nella parodia di serie Tv di successo come Game of thrones o House of cards. Svela, soprattutto, perché Giggino Di Maio e soci abbiano ritirato fuori la vecchia bandiera del conflitto di interessi. Un'arma puntata non solo verso il Cav, ma anche contro tutti quei personaggi che potrebbero contendere al movimento la rappresentanza dell'area moderata, ultimo obiettivo delle fantasmagoriche e spericolate congetture pentastellate.

Il primo contendente è proprio quel signore dai modi cortesi e sobri, che si siede quel giorno sulla poltrona della business dell'alta velocità che da Roma porta a Bologna, per andare a vedere la partita di campionato che contrappone il suo Torino al Parma. Parliamo di Urbano Cairo, cioè il patron di La7 e del Corriere della Sera, che è diventato, suo malgrado, uno degli incubi di chi è oggi al potere in Italia e una delle speranze di chi vorrebbe qualcosa di diverso dalla maggioranza gialloverde. Quello che da più fastidio a Giggino e soci è proprio il nicchiare del personaggio, il dire e il non dire se entrerà o meno nella vita pubblica italiana, un comportamento che è già il segno di una certa sagacia politica. «Certo che c'è uno spazio enorme ammetteva un mese fa il presidente della Rcs -, su questo non c'è dubbio. Se sono tentato? Anche se lo fossi, non lo direi ora. A che pro? Mica si vota oggi, non è che uno scende in campo alle elezioni europee. Sarebbe solo una mossa avventata. Per usare i linguaggio del marketing rischierei solo di bruciare un prodotto, di svelarne qualità e segreti, con l'unico risultato di logorarlo».

L'uomo da mesi si schermisce e già solo questo atteggiamento, che sembra dettato da un'attenta regia, aumenta la suspense per un possibile avvento. «Per cui osservava ancora Cairo in quell'occasione - non ha senso parlarne ora. Tanto più in una fase come l'attuale, in cui si va dalle stalle alle stelle, e viceversa, in un nanosecondo». Una spiegazione fondata, da personaggio che ha studiato o che è portato per quella particolare disciplina che è la politica. Del resto l'editore del Corriere ha assistito 25 anni fa, da un osservatorio privilegiato, ad un'altra «discesa in campo». «Berlusconi raccontava Cairo sempre il 6 aprile scorso su quel treno diede l'annuncio a due mesi del voto. E cominciò a muoversi solo quattro mesi prima, dopo aver tentato di sponsorizzare prima Segni e poi Martinazzoli. Io in quel periodo lavoravo nel suo gruppo e ricordo che molti dei suoi non erano dell'idea che dovesse fare quel passo, da Confalonieri a Letta. Io, invece, anche se non partecipai al progetto, ero d'accordo con lui».

Cairo sembra quasi di parlare di se stesso. Ciò non vuole dire, però, che alla fine romperà gli indugi, che maturerà una scelta che gli rivoluzionerebbe la vita. Ma già solo quell'ipotesi che aleggia da mesi, ha fatto impazzire i sismografi di una politica quantomai fragile e sospettosa. Di Maio in quest'ultimo scorcio di campagna elettorale ha ritirato fuori, infatti, l'antica crociata della sinistra sul conflitto di interessi. In apparenza sembrava un altro tema tirato in ballo per strappare qualche voto al Pd. Ieri, però, Il Fatto, «house-organ» del grillismo d'assalto, ha svelato in prima pagina l'arcano di quella proposta che il movimento ha presentato in tutta fretta in Commissione alla Camera: «Il disegno di legge scrive la Bibbia dei pentastellati dovrebbe contenere norme che metterebbero fuori causa non solo Cairo ma un'ampia platea di imprenditori». Insomma, ha reso pubblico il segreto di Pulcinella. «È chiaro ammette il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, l'azzurro Alberto Barachini che è un provvedimento pensato più per colpire Cairo che non Berlusconi».

La sortita 5 Stelle non deve meravigliare più di tanto. Gli ultimi mesi hanno dimostrato che i grillini hanno i piedi di argilla. Il loro consenso è aleatorio. E per risolvere il problema gli strateghi di un movimento che ha la faccia di bronzo di professarsi moderato, mentre pratica un «credo giustizialista», hanno pensato bene di ricorrere a nuove leggi restrittive delle libertà e della democrazia. Reiterano lo stile della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, che nel lontano '94 perse la battaglia con il Cav. Una strategia che mette in ambasce anche quello che sulla carta dovrebbe essere ancora il loro alleato di governo, la Lega. «Non puoi togliere ragiona il presidente dei senatori del Carroccio, Massimiliano Romeo di fatto i diritti politici a qualcuno, tirarlo fuori dalla politica solo perché è ricco o per altro. Che democrazia sarebbe! Certo che sappiamo di Cairo, che nutre qualche ambizione, ma non puoi risolvere il problema in questo modo». Di fatto, la scelta di Di Maio ripropone le differenze antropologiche e culturali che dividono leghisti e grillini. «Io non ho problemi con i 5 Stelle che mi trovo davanti - confida Romeo -, ma non mi piace quel mondo occulto, gli ambienti strani che hanno dietro».

Appunto, i grillini, se sono in difficoltà nei consensi, sono capaci di tutto, sono pronti a mettere in campo tutto il loro armamentario, dal giustizialismo al conflitto di interessi, per colpire gli avversari o i possibili competitor. Il vecchio vizio di una certa sinistra. Un rischio enorme nell'Italia di oggi che ha un elettorato scontento e volubile. Basta guardare agli ultimi dati della maga Ghisleri. La Lega che la settimana scorsa era sotto la soglia del 30% è tornata di qualche lunghezza sopra. Motivo? Potrà sembrare strano ma le critiche rivolte all'elemosiniere del Papa, che ha riattaccato la corrente ad un immobile occupato, l'hanno aiutata. Un saliscendi determinato dall'emozione, visto che il dato acquisito e stabile del Carroccio è il 25%. I grillini hanno ri-sorpassato il Pd, ma di poco: loro sono sopra la soglia del 20%, Zingaretti sotto. Forza Italia è sulla soglia del 10%, mentre la Meloni dovrebbe essersi assicurato il fatidico 4%. Insomma, i timori di Di Maio sono fondati: il consenso è «liquido» e l'ingresso di un nuovo protagonista, Cairo o altri, potrebbe rivoluzionare gli equilibri attuali.

Meno lecito il suo progetto di far fuori i potenziali avversari, mettendoli fuori dal campo di gioco.

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