La vendetta del maglione "negro"

La vendetta del maglione "negro"

Investire su Instagram e Facebook è ormai diventato un mantra per le aziende, ma può trasformarsi in una maledizione. Soprattutto per quelle imprese che, come le società della moda, si rivolgono principalmente a Millennial e alla generazione Z, un pubblico affamato di immagini, divoratore di racconti (o «storytelling») e per cui le scelte di acquisto sono sempre più dettate dalla «instagrammabilità» del prodotto, ovvero dalla sua fotogenicità e capacità di trasformarsi in un messaggio per chi visualizza il profilo dell'utente.

La strada dei like è tuttavia ad alto rischio. Sui social le immagini e le opinioni si susseguono a ritmi frenetici senza spazio di riflessione e il consenso social può quanto prima mutare in biasimo. I gusti sono volubili, la percezione è soggettiva e la sensibilità varia a seconda delle epoche e delle culture, il che significa che in un mondo interconnesso i giudizi di censura raggiungono anche coloro che, inizialmente, non avevano espresso remore nei confronti di determinati prodotti, ritenendoli addirittura interessanti. Allusioni, riferimenti a tradizioni e culture diverse, messaggi ambigui, cattivo gusto, velati luoghi comuni sessisti seppure intesi in chiave ironica possono essere ritenuti offensivi e interpretati dal pubblico social in modo negativo rimbalzando di schermo in schermo, traducendosi, in definitiva, in un colpo di frusta mediatico.

E più alto è il livello di reputazione, come avviene in genere per i brand di lusso, più il contraccolpo può essere doloroso come hanno dimostrato, negli ultimi mesi, le «cadute» social di Gucci, Prada (per un portachiavi a forma di scimmietta accusato di razzismo, in quanto avrebbe caricaturizzato i tratti africani), Versace (per non aver attribuito, in piena crisi politica, Hong Kong alla Cina), Dolce e Gabbana (per la campagna pubblicitaria cinese, ritenuta sessista), Lvmh (per la collezione dedicata, nel decennale della morte, a Michael Jackson che, nonostante una doppia assoluzione in tribunale, continua a essere oggetto di accuse) e Burberry (per una felpa con un laccio che ricordava un cappio). Ecco quindi che per molte maison le sfilate di Milano, al via oggi, si possono trasformare in una ricerca di riscatto, social prima di tutto e, di conseguenza, sui bilanci.

Proprio quello di Gucci è un caso emblematico visto che il marchio dalla doppia G aveva scelto negli ultimi anni di potenziare il suo brand attraverso la comunicazione social che tuttavia si è rivelata controproducente. Per la prima volta dal 2016 le vendite negli Usa hanno registrato, nel primo trimestre del 2019, una brusca frenata. La colpa? Tutta in un maglione, ispirato allo stile «Blackface», da 890 dollari lanciato lo scorso inverno dalla società controllata da Kering. Il capo, che richiamava il trucco utilizzato dagli attori bianchi per interpretare personaggi neri, è stato accusato di razzismo, dato alle fiamme sul web da celebrity in cerca del quarto d'ora di visibilità e oggetto di tweet al veleno da parte di numerosi vip che invocavano il boicottaggio del brand.

Non sono bastate le scuse ufficiali del brand, né l'assunzione di un chief diversity officer (Renée Tirado), né le borse di studio, né infine il ritiro dagli scaffali dei maglioni, a tamponare i danni. A maggio poi l'azienda è scivolata nuovamente nella riprovazione social con un copricapo Indy Full Turban, venduto a 780 dollari e ritenuto insensibile nei confronti della cultura sikh. In pochi mesi il valore social del brand è collassato, secondo Tribe dynamcs a 27 milioni di dollari, un terzo di tre anni fa.

Non basta quindi decidere di puntare sui social.

Occorre strategia, intuito, la capacità di schivare i baratri, eventualmente tenendosi un passo indietro, e di tirarsi fuori alle prime avvisaglie di disastri social, oltre a investimenti su diversità, multiculturalità e sostenibilità, scelte ovviamente da comunicare via social.

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