Il film del weekend

“Triangle of Sadness”, una Palma d’oro più spassosa che interessante

Un film volutamente buffo e caricaturale, in cui si ride di un tragico status quo mondiale. Un peccato che l’indubbia forza satirica non abbia in sé il seme della critica sovversiva autentica

“Triangle of Sadness”, una Palma d’oro più spassosa che interessante

Triangle of sadness, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, è finalmente nei nostri cinema. Dopo aver ricevuto lo stesso ambito premio per The Square (2017), il regista svedese Östlund fa il bis con un film che si prende gioco dell’élite economica mondiale e racconta la trasversalità della natura manipolatoria del potere.

Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean) formano una coppia di modelli e influencer. I due stanno insieme un po’ per piacere e un po’ per affari, visto che una storia d’amore è garanzia di coinvolgimento maggiore per i follower. Lui ha una carriera che comincia a perder colpi, lei è economicamente la parte forte ma ha anche la sindrome della principessina, il che crea squilibrio e dissapori. Invitati a partecipare gratis ad una crociera per ricchissimi in cambio di contenuti promozionali su instagram, i ragazzi si ritrovano a trascorrere le giornate tra selfie e conversazioni con magnati variamente assortiti. Tra gli ospiti spiccano Dimitry (Zlatco Buric), che si auto definisce il 're della merda' (vende concimi) ed è un russo spietato e cialtrone con moglie e amante al seguito, nonché due coniugi in età avanzata il cui patrimonio è legato alla produzione di mine anti-uomo. Sono tutti assistiti da un equipaggio composto da hostess e da manodopera straniera a capo del quale c’è un capitano alcolista, depresso e irriducibile marxista (Woody Harrelson).

Dopo l’affondamento della nave a causa di una tempesta, i sopravvissuti restano bloccati su un'isola deserta. Nella lotta per la sopravvivenza le barriere di classe vanno in frantumi, la gerarchia sociale viene capovolta e i ricchi, non avendo nessuna reale abilità manuale, sono alla mercé di una ex cameriera che, in virtù del suo talento nel procacciare il cibo, si ritrova improvvisamente reggente di una sorta di matriarcato.

In una cornice autoriale va in scena un divertente gioco al massacro in cui la tristezza fa capolino solo se si è al corrente del fatto che la meravigliosa interprete di Yaya, Charlbi Dean, è scomparsa per una "malattia improvvisa” lo scorso agosto, appena trentaduenne.

L’incipit sul mondo della moda e il primo capitolo relativo ai rapporti uomo-donna lasciano il posto a una seconda parte dedicata alle bizzarrie infantili (leggi meschinità ed egoismo) di un parterre di milionari la cui successiva fustigazione appare, nella migliore delle ipotesi, catartica e, nella peggiore, sadica. La scena cult del vomito di massa, in cui si assiste all’umiliazione parossistica di personaggi d’indifendibile sgradevolezza, è il climax della predilezione del regista per il grottesco. L’intento semantico da quella in poi è lapalissiano: sottolineare come siamo tutti uguali solo al bagno in preda a disturbi gastrointestinali, oppure a seguito di una disgrazia di massa che annulli le differenze sociali, proprio come nella meno brillante terza parte del film.

Triangle of Sadness fotografa dinamiche interpersonali che, in veste di vittima o carnefice, riguardano tutti. Mette a nudo i paradossi sociali a colpi di dialoghi brillanti, frasi a effetto e battute. Infine esaspera i toni, ritenendo il denaro l’ingrediente alla base di qualsiasi cocktail relazionale.

Intuibile come nel film la sovversione sociale sia solo una fantasia illusoria. L’opera è dissacrante e provocatoria nella maniera più innocua e superficiale possibile; la sua è un’irriverenza accattivante ma nulla più che il trionfo ilare di tutta una serie di stereotipi arcinoti. Non si semina riflessione e, anziché solleticare la capacità critica dello spettatore, si finisce con l’impigrirla proponendo verità trite e ritrite con cui è difficile essere in disaccordo.

Il cinismo comico reiterato caratteristico di “Triangle of sadness” finisce col rivelarsi per quello che è: una fonte di divertimento sterile. Sarebbe improprio infatti crederlo il medium per denunciare il consumismo, il classismo e il culto dell'apparenza propri dell'occidente. Pensare che questo sia cinema politico è risibile, a meno che non si reputi tale perfino il demenziale “Zoolander”. Non ci sono idee forti qui, semplicemente si intende smascherare una volta di più la tendenza all’ipocrisia dell’essere umano e ridicolizzare i capricci di chi si trovi in posizione di privilegio.

Facile intuire che “Triangle of sadness” possa essere un successo internazionale anche di pubblico, ma onestamente da una Palma d’Oro forse ci si aspetterebbe di più che una divertente gita di gruppo nel luogo comune.

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